2000:

L’EUROPA DELLE LINGUE E DEGLI STATI NAZIONALI

 

DOTT. MASSIMILIANO BADIALI

INTRODUZIONE

Questo studio si propone di presentare un quadro panoramico dell'Europa delle lingue e degli Stati nazionali corrispondenti ad esse all'alba del 2000, per dare un contributo sociolinguistico alla storia politica e culturale dell'Europa dal 1450 ai nostri giorni. L'Europa d'oggi si concepisce com’è abitualmente percepita, " dall'Atlantico agli Urali ": più che la piccola Europa attualmente detta " dei quindici " che costituisce l'Unione Europea del dopo-Maastricht, prevale la concezione di estensione che spinge il nostro continente verso il Caucaso e la Georgia e l'Armenia per il loro passato cristiano e anche aldilà dalla parte dei paesi turcofoni e iranofoni, includendo tutta la vecchia Unione sovietica. Si nota nelle analisi storiche la continuità dei movimenti di diffusione di Ovest verso Est che giustificherebbe in una certa maniera una concezione allargata dell'Europa. Sul piano linguistico, il reperimento del modello stato-nazionale come modello d'organizzazione sociopolitica ha semmai contribuito alla diminuzione del numero di lingue parlate nel mondo e le lingue hanno fatto parte degli strumenti politici usati dalle classi e dagli spazi dominanti per consolidare il potere e la burocrazia. E’ così che la scelta di una o più lingue ufficiali diviene un deterrente determinante nella costruzione o nell’evoluzione di uno Stato-nazione ; le lingue non riconosciute sono, sia relegate alle zone della società civile e della sfera privata, sia usate con finalità strategiche. Perciò non esiste, demograficamente parlando, uno Stato monolingue. Esistono d’altronde Stati che, storicamente, per politiche linguistiche di monolinguismo ­ esplicite o implicite ­ hanno tentato di diminuire, d'eclissare o di occultare la diversita linguistica.

 

SOGGETTI DI PARTICOLARE INTERESSE

 

LA YUGOSLAVIA

 

L'esempio più increscioso e più toccante dell'attuale tendenza ad omogeneizzare sul piano linguistico i nuovi Stati è rappresentato di tutta evidenza dallo smembramento della vecchia Federazione (e non Confederazione) iugoslava. Al contrario del Regno di Yugoslavia (1919-1943) che si rifaceva all'idea dell'esistenza di una sola nazione (iugoslava), il partito comunista iugoslavo riconosceva il pluralismo nazionale e organizzava lo stato su base federale. La Yugoslavia comprendeva ormai sei repubbliche: la Bosnia-Erzegovina, la Croazia, la Macedonia, il Montenegro, la Serbia e la Slovenia. La Serbia è l'unica repubblica a contare due regioni autonome: la Voïvodina e il Kosovo. L'opzione federale è censita per apportare una soluzione durevole ai conflitti nazionali che hanno colpito il Regno de Yugoslavia. Le minoranze nazionali sono dichiarate uguali nei diritti ai popoli slavi che costituiscono la Federazione. In realtà, alla fine della seconda guerra mondiale, l'autonomia delle repubbliche è limitata e la Yugoslavia sembra uno Stato centralizzato. Josip Broz Tito, simbolo vivente dell'unità iugoslava, muore il 4 maggio 1980. Il paese entra simultaneamente in un periodo di grave crisi economica, sociale e politica. Quando la Yugoslavia s’inabissa in una grave crisi economica, le divergenze politiche si moltiplicano tra i dirigenti della Lega dei comunisti della Yugoslavia. La Slovenia, e in minor misura la Croazia, si oppone ad una nuova centralizzazione della Yugoslavia e rimette in questione l’aiuto economico alle regioni meno sviluppate del sud della Federazione. In Serbia, il malcontento contro l'ordine costituzionale del 1974 si diffonde nella seconda metà degli anni 80. La Slovenia e la Croazia difendevano un progetto confederale che portasse a termine lo smantellamento della Yugoslavia; la Serbia e il Montenegro sostenevano un modello federale che rinforzasse le istituzioni centrali e che significasse, di fatto, una dominazione del paese da parte della Serbia. La Bosnia-Erzegovina e la Macedonia tentarono di proporre un compromesso per mantenere una forma d'unione iugoslava. Non essendo i presidenti delle Repubbliche federate giunti a compromessi sull'avvenire della Yugoslavia, la Slovenia e la Croazia decisero di proclamare l’indipendenza il 25 giugno 1991.

Guerriglie sono scoppiate allora in Slovenia tra l'Armata popolare iugoslava, incaricata di difendere le frontiere iugoslave e la Difesa territoriale slovena: la guerra è stata breve e l'Armata federale ha lasciato la Slovenia nel luglio agosto del 1991.In Croazia, in cui gli incidenti si sono moltiplicati dal 1990 tra insorti serbi e unità di polizia croata, la guerra si configurò e si estese. In qualche mese, le forze serbe appoggiate dall'Armata popolare iugoslava presero il controllo di un terzo del territorio della Croazia, da dove radiarono la popolazione croata. Gli accordi di pace sono stati firmati nel gennaio del 1992.I territori croati perduti sono stati riconquistati tra la primavera e l’estate 1995, provocando l'esodo della popolazione serba ivi residente.

La guerra è scoppiata in Bosnia-Erzegovina in seguito alla proclamazione dell’indipendenza nel marzo 1992 e del riconoscimento internazionale nell’aprile 1992.In qualche mese, le forze serbe hanno preso il controllo del 70% della Bosnia-Erzegovina e hanno organizzato la deportazione forzata delle popolazioni mussulmane e croate per assicurare l'omogeneità etnica dei territori conquistati si è trattato di pulizia etnica. La Repubblica serba di Bosnia-Erzegovine è stata autoproclamata nell’aprile 1992 a Pale, villaggio dei dintorni di Sarajevo. Nel luglio 1992, un Stato croato è stato ugualmente autoproclamato: la Comunità croata di Herceg-Bosna.

Nella primavera 1993, le guerriglie sono scoppiate tra l'armata bosniaca e le forze croate. La pulizia etnica è stata ugualmente praticata dalle unità del Consiglio di difesa croata (HVO) contro i Bosniaci musulmani. Nel marzo 1994, gli accordi di pace sono stati firmati a Washington tra Bosniaci e Croati: essi instaurano una federazione croato-mussulmana. Bisognerà aspettare l'estate 1995 per vedere le grandi potenze coinvolgersi militarmente in Bosnia-Erzegovina e imporre un’interruzione dei combattimenti. Gli accordi di pace di Dayton, che mantengono unita la Bosnia-Erzegovina, ma riconoscendo la divisione territoriale tra Repubblica serba (49% del territorio) e Federazione croato-mussulmana (51%), sono stati firmati a Parigi il 14 dicembre 1995. Il conflitto ha fatto 200.000 morti circa e ha provocato la deportazione di due milioni di persone (1.300.000 persone deportate all'interno della Bosnia-Erzegovina e 700 000 all’esterno), sia circa la metà della popolazione di prima della guerra. Lo spazio iugoslavo, cioè quello ricoperto dallo Stato che è vissuto dal 1918 al 1991, segna una demarcazione fra l'Oriente e l'Occidente. E’ abitato da un mosaico di popoli caratterizzati da tradizioni religiose e culturali diverse, la cui ripartizione geografica non concorde con le frontiere politiche.

Per la repubblica di Slovenia, per la sua omogeneità etnolinguistica, la trasformazione in Stato-nazione non ha quasi posto alcun problema eccetto che un rischio di satellizzazione da parte della tutela dell'antica potenza austriaca, per il debole peso demografico. Ma per la Croazia, e più ancora per la Serbia che si è impegnata in una politica di livellamento delle minoranze in Voïvodina, soprattutto in Kosovo (dove gli Albanesi sono la maggioranza), il raggiungimento dell'indipendenza si è accompagnato ad importanti trasferimenti di popolazione e di secessioni territoriali. Per quanto riguarda la Macedonia, solo il suo nome evoca la miscela di popolazioni e la legittimità stessa della sua denominazione è contestata dalla vicina Grecia. Quest’ultima conta in effetti, nella provincia dallo stesso nome, slavofoni " macedoni " esposti assai regolarmente ai fastidi d’Atene per impulso nazionalista. Si può dubitare della validità di una federazione multinazionale appena uscita da una terribile guerra etno-religiosa e, se esiste una forte entità nazionale mussulmana " bosniaca " (poiché ora si usa nominare " bosniaco " ciò che la terminologia titista aveva designato come Mussulmano) o kosovara.

Come ieri in Croazia o in Bosnia-Erzegovina, il dramma del Kosovo trova la sua origine in una storia tormentata, poiché l'armata di Belgrado, risoluta ad annientare i maquis kosovari dell'UCK, ha devastato questa provincia serba popolata da nove decimi d'Albanesi, per lo più mussulmani. Due anni di esodi danteschi di kosovari affollati verso la Macedonia e l'Albania. Il gesto patriottico serbo ha dunque scelto per mito fondatore una disfatta, preludio a cinque secoli di dominazione turca."Il Kosovo è la nostra Gerusalemme, la culla della nazione. Là riposano i nostri re. Là sono sorti dalla terra, ecco per secoli, i nostri monasteri più prestigiosi."diceva Slobodan Milosevic. Il rimedio alla storia?Liquidare gli Albanesi o scacciarli dal Kosovo-Metoija: certo, le radici del conflitto affondano nel passato convulso di un mosaico etnico e religioso nato sulle macerie degli imperi ottomano e austro-ungarico. E l'eccesso alimenta le ossessioni e i fantasmi, ha nutrito la retorica del Serbo Slobodan Milosevic, maestro nell'arte di manipolare la memoria collettiva. Grande Serbia: si tratta spesso di coltivare, presso i contadini e i cittadini, la nostalgia di un’età d'oro immaginaria, di un’illusione lirica. Anche se conta in fondo soltanto la legge del più forte, si invocherà, poiché lo si deve fare, quella del primo occupante. Stando a questo gioco, gli Albanesi si ritengono prima di tutto i discendenti degli Illirici, popolazione indo-europea stabilita in Dalmazia : perciò dei millenari. Filiazione ricusata dalla storiografia serba, pronta ad affermare l'anteriorità di un popolamento slavo nei Balcani che risaliva al VII secolo. Visto da Belgrado, è l'invasore ottomano, persecutore del Kosovo originale, che ha permesso agli albanofoni di metterci radici. Diventati così minoranza, i Serbi hanno avanzato qui la preminenza del fatto storico. La Confederazione Yugoslavia aveva riunito Serbi, Croati e Sloveni in seno allo stesso "regno unito", . E tanto peggio se i primi, di confessione ortodossa, hanno adottato il cirillico, mentre i loro partner, cattolici, utilizzano l'alfabeto latino. Strano patcwork questa Yugoslavia, "casa comune" supposta degli Slavi del Sud, circondata dagli Albanesi - nel Kosovo come in Macedonia - dai Rumeni, dai Turchi, dai Cechi, dagli Ungheresi, dagli Slovacchi, dai Ruteni (cattolici d'Ucraina), dagli Italiani e dai Russi bianchi. Non si rifaccia : cedendo molto velocemente ad una vecchia propensione centrista, i Serbi si ergono sui loro partner.

Con l’invasione italiana in Kosovo, Mussolini deportò 2 milioni di albanesi, che nel 1991 all’interno della Yugoslavia si sono pronunciati massicciamente in favore dell'indipendenza, poi hanno eletto un’Assemblea e un "presidente", il linguista Ibraim Rugova, fondatore della Lega democratica del Kosovo (LDK).La maggioranza è costituita da kosovari di etnia albanese - 68% della popolazione nel 1948, 90% oggi – detenendo un tasso di natalità superiore. Inoltre, le tensioni tra le comunità conducono numerose famiglie serbe a lasciare un luogo ostile. Uno statuto d'indipendenza del Kossovo avrebbe inoltre la tendenza a risvegliare le forze centrifughe nei Balcani, che sono il punto nevralgico più debole d’Europa, in gradi diversi certo, (Sandjak, Voïvodina, Transilvania, ecc.), eccetto per quanto riguarda l'attuale Repubblica federale di Yugoslavia che comprende la Serbia e il Montenegro. Come si potrebbe riconoscere il diritto all'autodeterminazione degli Albanesi, senza applicarlo ad altre popolazioni nazionali ripartite anch’esse in molti stati : Serbi e Croati o Mussulmani di Bosnia-Erzegovina, ad esempio? Si ha la tendenza a dimenticare che le questioni nazionali serba e albanese presentano numerosi punti in comune e che questi costituiscono le principali fonti di destabilizzazione della penisola balcanica. Alcuni obbietteranno che il Kosovo era già un’unità federale della vecchia Yugoslavia comunista (e che secondo tale riconoscimento, la rivendicazione dell'indipendenza è legittima) e che la popolazione albanese ivi è compatta, mentre in Bosnia-Erzegovine l'omogeneità nazionale nelle regioni serbe e croate è stata ottenuta tramite una politica determinata dalla pulizia etnica. Non si dimentichi che i confini attuali del Kosovo esistono soltanto dal 1945 e che questa provincia non era nel quadro della Yugoslavia comunista un’entità definita sul piano nazionale : bisogna ugualmente tenere conto che la soluzione della questione del Kosovo costituisce soltanto un regolamento parziale della questione albanese nei Balcani : numerosi Albanesi vivono in Macedonia e in minor proporzione in Montenegro. La costituzione di un Kosovo indipendente potrebbe anche rinforzare la rivendicazione di uno Stato unitario degli Albanesi che si formerebbe con lo smembramento della Serbia, della Macedonia e del Montenegro.

 

BIBLIOGRAFIA

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Garde, P. Vie et mort de la Yougoslavie, Paris, Fayard, 1992

 

Lory (Bernard), L'Europe balkanique de 1945 a nos jours : Paris : Ellipses, 1996

 

Prevelakis(Georges), Les Balkans : cultures et geopolitique :Paris: Nathan, 1994

 

I KURDI

 

In Europa ci sono 5 milioni di Kurdi : il Kurdistan, paese dei "kurdesest" sarebbe stato un territorio più grande della Gran Bretagna, dei Paesi Bassi, del Belgio, della Svizzera e la Danimarca riunite. Oggi il Kurdistan è diviso fra cinque paesi: la Siria, la Turchia, l'Iran, l’Iraq e l'ex URSS in cui i Kurdi costituiscono soltanto una minoranza. Nonostante questa situazione e malgrado la coesistenza con arabi, turchi, russi e iraniani, i Kurdi hanno conservato la propria identità etnica : il loro sentimento nazionale è estremamente sviluppato, in quanto essi sono coscienti della loro unità linguistica e culturale. Dopo aver opposto resistenza feroce alle invasioni arabo-mussulmane, i Kurdi finirono per essere soggetti all'Islam, senza però lasciarsi arabizzare. Questa resistenza si estese più o meno per un secolo. Per delle ragioni sociali maggiormente che religiose le tribù kurde resistevano alle tribù arabe.

Per amalgamare i Kurdi e convertirli all'Islam, tutti i mezzi furono usati , perfino la strategia matrimoniale (per esempio, la madre dell’ultimo califfo Hom Hayade, Merwan Hekim, era kurda).Dal XVI secolo, i principati kurdi fecero sì, dal XIX che, sotto la dominazione ottomana, un movimento nazionalista kurdo autentico cominciasse a manifestarsi. Dopo il 1804, le rivolte si succedettero, sempre duramente represse dalla "Sublime Porta". Questo non permise, nel corso della prima guerra mondiale, di radunare le popolazioni kurde disseminate attraverso l'Impero Ottomano; al contrario, queste accolsero come liberatori gli inglesi a Mossoul (Iraq). Il trattato di Sèvres (10 agosto 1920) esaudì le voci dei nazionalisti kurdi offrendo loro la prospettiva di uno Stato autonomo. Ma il trattato non fu mai applicato, essenzialmente a causa della feroce opposizione d'Atatürk. La vittoria riportata da questo contro le truppe greche apriva il cammino al trattato di Losanna (1923): la Turchia conservava la maggior parte del Kurdistan, in cambio di cui avrebbe dovuto rispettare le libertà culturali, religiose e politiche di tutte le minoranze.

L'atteggiamento in generale poco comprensivo dei governi da cui dipendevano, nei riguardi dei loro interessi e delle proprie aspirazioni all'autonomia, li hanno condotti a ribellarsi molte volte nel corso del XX secolo. Ci sono state ribellioni kurde in Turchia nel 1952, 1930 e 1937. L'Iran conobbe quella di Simko dopo la prima Guerra mondiale, e quelle che seguirono attuando la proclamazione della Repubblica di Maabade nel 1946. In Iraq, i Kurdi hanno brandito le armi nel 1918, 1924, 1943 e 1961. In nessun momento, però, sono riusciti a conquistare la loro indipendenza. È solamente in URSS che non si sono confusi, almeno apertamente, con i desideri d'autonomia.

La lingua kurda è totalmente diversa dal turco e dai gruppi di lingue semitiche: appartiene al ceppo indoeuropeo.

Il popolo kurdo è nel cammino della disperazione, è calpestato dalla macchina economica mondiale. Questa macchina calpesta, senza tenere conto del principio di popolo, tutto ciò che si trova sul suo raggio d’azione. I valori economici non hanno pietà dei valori umani. In effetti, un popolo di cui si nega selvaggiamente l'identità rischia un giorno di difendere la propria identità selvaggiamente. Se oggi il popolo kurdo non nega l'identità del popolo turco o iracheno, non si può affermare che sarà così per sempre. Una guerra senza fine rischia di avvelenare la vita del popolo turco e iraniano e quella del popolo kurdo. Ogni pallottola tirata oggi dai militari della Turchia nella regione kurda fa retrocedere la Turchia di un passo. Il governo di quest’ultima fa avanzare la sua popolazione verso l'estremismo, turba in sicurezza l’economia e annerisce la sua storia di una macchia in più.

Essere kurdo potrebbe definirsi così non essere né turco, né arabo, né iraniano. E più di parlare la lingua kurda, ciò significa " credere in un solo Kurdistan" per alcuni o " non avere nazione propria " per gli altri (anche se hanno la nazionalità Turca, Irachena o Siriana).

 

 

BIBLIOGRAFIA

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T. M. Jasim, l’ingerenza umanitaria : il caso dei kurdi, Biblioteca Franco Serantini soc. coop. a.r.l. Pisa
L. Schrader, I fuochi del Kurdistan, Data news
L. Schrader, Canti d’amore e di liberta del popolo kurdo, Tascabili Economici Newton
L. Schrader, Sulle strade del Kurdistan, Edizioni Gruppo Abele
J. C. Randal, I Curdi, Editori riuniti
P. Langendo , Una sfida nel Kurdistan, Adelphi
J. Randal, I Kurdi : viaggio in un paese che non c’è, Editori Riuniti