BICENTENARIO DEL "VIVA MARIA"

Arezzo tra il 1799 e il 1801

 

Massimiliano Badiali

 

L’insorgenza del "Viva Maria", che scoppiò ad Arezzo nel Maggio 1799, è un momento importante della storia della città toscana, poiché divenne il centro di irradiazione più reazionario nelle file delle forze antinapoleoniche.

Il Viva Maria, come Turi ha abilmente affermato nacque dal binomio di fame e fede. La prima, in effetti, giunse nel 1799 ad un punto estremo, dal momento che l’occupazione francese creò nuove tasse e di conseguenza l’aumento dei generi alimentari. La miseria dilagante, il rincaro dei viveri, l’incapacità delle autorità a rimediare allo stato di cose furono certamente uno dei fattori principali di una tensione crescente che dagli anni ’80 in poi si era progressivamente creata ad Arezzo. Arezzo e la sua provincia, ad eccezione di poche aziende di manifattura, era territorio prevalentemente agricolo. A causa dei molti anni di carestia nei raccolti, l’agricoltura era in piena crisi ed inoltre la situazione economica fu peggiorata dai nuovi dominatori, dal momento che fu introdotto un sistema di tassazione più alto per provvedere al mantenimento delle truppe francesi. Con la crisi della manifattura e dell’industria tessile si crearono condizioni precarie e disagiate in Arezzo, come in campagna per gli scarsi raccolti di grano. Inoltre la crisi occupazionale e l’aumento demografico crearono un rincaro dei prezzi negli anni novanta : uno staio di grano, infatti, raddoppiò fra il ’92 e il ’95. Nel ’95 ci fu un episodio di conflitto fra la popolazione e il vicario granducale per l’aumento il 18 Aprile del grano fino a 18 lire lo staio. La crisi economica tese sempre più a precipitare dopo che il 25 Marzo 1799, anche se il granduca Ferdinando III affermò la neutralità della Toscana il generale Gaultier entrò a Firenze, a cui seguì l’invasione di Arezzo il 6 Aprile dei francesi capeggiati da Lavergne.

Qui fu creata una municipalità giacobina con Camillo Albergotti, Francesco Pigli, Domenico Pignotti, Antonio Giovanni, il servita Ricasoli e come segretario Belisario Cittadini. I francesi inalzarono in città l’albero della libertà. L’invasione francese ad Arezzo permise, infatti, seguendo i principi del trittico rivoluzionario, maggiore uguaglianza fra classi sociali. Con la conquista francese di Arezzo, infatti, si abolirono vecchi privilegi nobiliari: le logge del Vasari, che riportavano l’incisione "Vietato lu passaggio all’ignobile plebaglia", non furono più riservate all’élite cittadina, ma l’ingresso fu aperto all’intera cittadinanza.

Nei documenti inediti dell’insurrezione, i giacobini aretini evidenziavano l’uguaglianza di tutti contro il disprezzo dei nobili. L’estremo conservatorismo e tradizionalismo del popolo, legato alla mite politica di Ferdinando III, vide nei francesi degli usurpatori. Essi non godettero di buona fama nemmeno da parte della massa., a causa soprattutto del loro anticlericalismo.

In una lettera Lorenzo De’ Giudici, notaio del tempo annotava riferendosi ai francesi:

 

"Presero le redini del governo, s’imposero un’aria sprezzante e di comando, minacciarono vendette vilipesero la nobiltà e gli stati ecclesiastici non furono risparmiati. Sparlavano del Principe del passato Governo e gli stemmi reali furono infranti e nascosti".

 

 

Dato che Arezzo non accolse favorevolmente i francesi e il loro rinnovamento dell’assetto dello stato, i continui atti contro la religione, la proibizione delle pie adunanze, dei canti religiosi nelle processioni e le requisizioni di oggetti sacri non tesero che ad esasperare la già complessa situazione socio-economica.

Appare pertanto chiaro che l’ideale rivoluzionario non ebbe grande diffusione anche per la natura mite del popolo toscano, di cui Pesendorfen più volte parla. Lo storico evidenzia, inoltre, quanto gli strati più poveri non fossero in grado di servirsi di parole come uguaglianza e libertà, puri astrattismi rispetto alla fame.

Gli aretini rimasero particolarmente fedeli alle tradizioni religiose, anche perché, come si racconta, il 15 Febbraio 1796 "si sparse la voce che alcuni artigiani avevano visto divenire bianca un’annerita immagine di Maria, che si trovava in una cantina annessa all’oratorio Grancia durante il terremoto. Ne seguì la fede nel fatto che la Madonna avesse protetto la città. Ciò spiega l’entusiasmo dal quale gli aretini erano animati così da cercare di minacciare i francesi nel nome di Maria.

La borghesia e la nobiltà, dal canto loro, erano legate al vecchio ordinamento granducale, la prima per i minori sgravi fiscali, la seconda per i privilegi che le venivano da un regime monarchico.

Nei giorni precedenti allo scoppio dell’insorgenza del "Viva Maria", ci furono segni di rivolta verso i francesi in tutto l’aretino. Nella notte fra il 24 e il 25 Aprile la comparsa di fuochi nelle campagne circostanti pose in orgasmo la popolazione di Marciano della Chiana; il giorno seguente si sparse la voce di un saccheggio di Lucignano, ad opera dei briganti, spinse i popolani ad impugnare le armi e lo stesso accadde a Foiano. Il 5 Maggio si svolse tranquillamente, A Lucignano, la festa per l’erezione dell’albero della libertà, ma verso sera, e nei giorni seguenti, la vista dei fuochi e voci che riferivano il ritorno degli austriaci a Firenze provocò disordini.

La notizia del presunto ingresso degli austriaci in Toscana generò un tumulto il 6 Maggio a Monte San Savino, ove fu costituita una truppa di volontari antifrancesi; analoghe voci sparse da ortolani provenienti da Castiglion Fiorentino e da Cortona causano delle rivolte a Foiano. Il giorno prima del Viva Maria era scoppiato un tumulto a Civitella. A Castiglion Fiorentino e a Cortona avvennero due rivolte antifrancesi : solo con l’arrivo degli aretini permise la vittoria dei reazionari. A Cortona l’insurrezione scoppiò nello stesso giorno di quella aretina, cagionata "dal mero caso, qual furono i fuochi del di lei territorio e la venuta di una staffetta diretta al comandante della piazza per tutt’altro, ma che fece credere che Firenze di già fosse in mano dei coalizzati". Arso l’albero della libertà e imprigionati i francesi la popolazione formò un governo provvisorio, che non riuscì a mantenere il controllo della situazione, abbandonando Cortona nella più perfetta anarchia.

Il 6 Maggio, giorno di eclissi solare e compleanno di Ferdinando III, entrò in Arezzo una carrozza con un vecchio e una vecchia, nei quali il popolo ravvisò San Donato e la Madonna. Dietro ad essa entrarono in città numerosissimi contadini in tumulto, armati rudimentalmente; i pochi francesi riuscirono a fuggire e i giacobini vennero arrestati.

Riguardo alla rivolta aretina Pesendorfen, così ha scritto :

 

"Il 6 Maggio, giorno del trentesimo compleanno di Ferdinando III, scoppiò l’insurrezione al centro delle tre valli ad Arezzo. Il mattino stesso era entrato in città un manipolo di uomini selvaggiamente armati. La cosa fa pensare che la spontanea sollevazione popolare avesse ricevuto un certo aiuto. Si disse, infatti, che il religioso Don Giuseppe Mattei, e Lorenzo Romanelli, proprietario di terre nelle vicinanze della città avessero mandato dei contadini ad Arezzo. Molti abitanti si unirono al corteo dei dimostranti; venne quindi vista una carrozza; in serpa sedevano un vecchio e una vecchia che faceva sventolare una bandiera coi colori imperiali, secondo alcuni testimoni oculari si credette di vedere nella coppia la Madonna e San Donato. Venne quindi diffusa o, piuttosto intenzionalmente sparsa la voce che gli alleati erano entrati a Firenze"(pag. 228).

 

 

Arezzo era in mano agli insorti che ringraziarono la Madonna e San Donato.

Chrisolino ci racconta, inoltre, che "verso le otto il popolo aretino levò schiamazzi altissimi, e diceva Viva Maria e Ferdinando, sia bruciato l’albero della libertà( p. XXII). Poche ore dopo, gli insorti vennero ordinati in bande guerriere da nobili e fu costituita la Suprema Deputazione, che divvenne l’organo di governo sia civile che militare. Furono scelti capi che, con il regio vicario Pietro Mazzini, governassero con pieni poteri nella Suprema Deputazione, che doveva reggere il governo finchè il granduca non fosse ritornato. Nel governo instaurato il potere civile fu esercitato da due nobili, due esponenti dell’alta borghesia e uno del popolo : il barone Carlo Albergotti, il cavaliere Tommaso Gnattesi, il giureconsulto Niccolò Brillandi, il dottor Francesco Fabbroni e il capitano Luigi Romanelli. La Deputazione Militare ebbe a capo il cavaliere Angelo Guillichini ed ebbe il fine di difendere Arezzo e di liberare progressivamente tutta la Toscana.

Il commissario francese Reinhard minacciò di distruggere Arezzo se gli aretini non si fossero arresi. Ma Arezzo si risolse di no.

Il successo degli aretini dipese anche dal fatto che le truppe francesi progressivamente si ritiravano impegnate contro gli austro-russi. Inoltre il generale francese Macdonald divise il passaggio delle truppe da Roma verso Nord in due linee direttive una verso Siena, l’altra verso Perugia, che esclusero Arezzo : i francesi raggiunsero così Firenze il 26 Maggio ed ivi rimasero fino al 6 Luglio.

Gli aretini cercarono per le loro truppe un comandante austriaco, il giovane Carl Schneider, che divenne capo delle bande aretine. Lo scopo della Suprema Deputazione era quello di liberare tutta la Toscana, affinché ritornasse Ferdinando III.

Per tale scopo Arezzo si fortificò, cercando di controllare il grano della Chiana : intercettò i viveri diretti a Firenze e li tenne in città, mantenendo il grano a 2 paoli lo staio e il pane a tre soldi la libbra. Questo rese Arezzo la capitale dell’insorgenza in posizione egemonica antifrancese.

La ragione principale del successo delle bande aretine è da ricercarsi nella capacità di concentrare su di sé le speranze degli insorgenti. La Suprema Deputazione con certi provvedimenti economici, come l’essersi impadronita di 10.000 scudi ( di cui 7.000 che erano la prima rata del prestito forzato ordinato dal Granduca sotto imposizione di Reinhard e 3.000 che erano le imposizioni sui possidenti aretini ), riuscì ad abbondare di viveri.

Il fatto che " tutto il grano della Chiana si trasferiva a questa città di Arezzo, perché non andasse a Firenze", ingrossò le bande aretine perché molti contadini, non solo aretini, ma toscani e anche umbri entrarono nell’armata per avere pane.

Questo approvvigionamento dei viveri a basso prezzo fu mantenuto dalla Suprema Deputazione facendo ridurre il 3 Agosto ai fornai aretini il prezzo del pane a soldi 5,8 ogni due libbre, "altrimenti sarà preceduto a soluzioni di lor minor conseguenza in vantaggio del pubblico".

Arezzo fu per tal motivo denominata "ricca fiera" in La Gazzetta Aretina del 31 Maggio e del 10 Giugno. La politica del governo aretino fu fortemente accentratrice : il 1° Giugno la Suprema Deputazione dichiara di propria pertinenza le rendite dello Scrittoio delle Possessioni dell’Ordine di S. Stefano e il 2 Giugno inviò Tommaso Guazzesi a prendere possesso delle fattorie granducali della Valdichiana. Il 10 Giugno La Gazzetta Aretina presentava Arezzo come " la capitale dell’insurgenza" ed evidenziava come qui vi fossero abbondanza di armi, di denaro e di sussistenza.

Quest’idea di missione che gli aretini sentivano nasceva dal desideriodi combattere per difendere "la religione, la giustizia e l’ordine pubblico".

L’insorgenza aretina acquistò un carattere più organizzato al momento dell’arrivo il 16 e il 28 Giugno del comandante austriaco Schneider e del ministro britannico presso la Toscana Wyndham.

Le bande aretine con l’apporto di volontari di varie zone, spinti più dalla fame che dalla convinzione, apparivano, come ha evidenziato Zobi, più che un esercito una pittoresca, ma tragica armata di straccioni.

Il 9 Giugno i ribelli occuparono Cortona, il 28 Siena, commettendo terribili eccidi di giacobini, il 7 Luglio raggiunsero Firenze, dove fecero il loro ingresso con alla testa il terzetto Lorenzo ed Alessandrina Mari e Wyndham, il 17 erano a Livorno.

Con la conquista di Firenze l’egemonia aretina nella Toscana andò pian piano ridimensionandosi. L’esercizio del potere sulla Toscana tornò al Senato Fiorentino. La Suprema Deputazione, comunque, mantenne un atteggiamento fiero ed altezzoso, memore del ruolo egemone svolto, ma decisamente rispettosa e garante del potere granducale. La Suprema Deputazione risultava, infatti, priva di un qualsiasi riconoscimento da parte di Ferdinando III, essendo figlia di un’insurrezione.

Privi del mandato granducale, gli aretini mandarono il 15 Luglio una delegazione a Vienna, con a capo il Gamurrini.

Il granduca non vedeva di buon occhio lo spirito rivoluzionario, sentendolo come minaccia alla sovranità del suo potere. Ferdinando III da Vienna, dove rimase pavidamente protetto dal fratello ( poiché il Granducato di Toscana spettava al secondogenito di casa Asburgo ) si congratulò formalmente con gli aretini " con il dovuto plauso al coraggio, alla fermezza di tutto quel popolo toscano".

Il 26 Agosto il Senato Fiorentino voleva a tutti i costi far sciogliere le bande aretine, per il ripristino del passato sistema politico. L’8 Settembre le truppe austriache occupavano Firenze assumendo il corpo di guardia, mentre i russi si stanziavano a Livorno. Franz Von Hohenzollern fu nominato generale maggiore e comandante generale della Toscana. In seguito il 12 Settembre il maggiore Frelich giunse ad Arezzo per sciogliere le bande e far tornare ognuno dei suoi componenti alla propria occupazione.

La Suprema Deputazione si scioglieva. Ai capi della città furono dati riconoscimenti onorifici come targhe e titoli.

Ferdinando III, con moto proprio, il 10 Febbraio 1800 riconobbe Arezzo come provincia. Il Granduca rimase a Vienna e non tornò a governare nella sua, per così dire terra, ma lasciò che la Toscana fosse governata dal Senato Fiorentino e che il potere reale fosse svolto dai comandanti delle truppe austriache.

Dopo che gli austriaci furono sconfitti a Marengo, i francesi tornarono in Italia e nell’estate del 1800 a Firenze. Il capo della reggenza G.B. Sommariva si recò ad Arezzo per incitare la popolazione ad insorgere di nuovo, ma all’arrivo dei francesi abbandonò la città, nominando un governo provvisorio che avrebbe dovuto svolgere l’azione oppositoria che aveva esercitato la Suprema Deputazione, composto dai capi della passata insurrezione. Ma, pur tentando a difendersi il 18 Ottobre dentro le mura, la popolazione non riuscì a respingere i francesi.

Arezzo fu infatti invasa col saccheggio di chiese, di magazzini e furono feriti numerosi civili. Perfino la Chiesa di S. Francesco che ospita gli affreschi di Piero della Francesca fu saccheggiata e resa una stalla. I francesi imposero, inoltre, una tassa di "contribuzione-retribuzione"(Turi) come punizione al moto antifrancese del Viva Maria di 54.000 scudi.

Durante il conseguente regno di Etruria, che Napoleone affidò al duca di Parma, Arezzo fu sempre sorvegliata.

Negli anni successivi non si poté non solo ripetere un Viva Maria, ma neppure migliorare la situazione economica che tese sempre di più a peggiorare ed a questa si aggiunse il difficile ruolo che Arezzo dovette subire per essere stata città ribelle.

Tutte queste furono le conseguenze del fallimento del moto Viva Maria, che, al contempo, evidenziò una maturità nuova sociale e civica : le leggi che la Suprema Deputazione aveva decise risultavano essere abbastanza eque.

Il moto fallì per il conflitto di interessi della Suprema Deputazione con il Senato Fiorentino, nonché a causa dell’indecisa politica di attesa e di temporeggiamento del Granduca, che da Vienna pavidamente fece sciogliere l’unico governo che comandava una milizia completamente filogranducale.

Così i francesi tornarono al potere e posero al governo i giabini del primo, che ripristinarono una nuova municipalità di chiara intonazione democratica, anch’essa destinata a durare fino a quando la Toscana divenne Regno D’Etruria.

Commentando il Viva Maria lo Zaghi nota che "la stessa insorgenza del Viva Maria del ’99 si colloca in uno schema diverso da quello del contrasto rivoluzione-reazione. Più che contro i francesi e le idee giacobine, essa si presenta come una tardiva risposta alle riforme leopoldine che avevano sacrificato le masse popolari all’interesse e al trionfo della ricca borghesia; di quella ricca borghesia che, nelle braccia della rivoluzione, aveva completatol’opera di distruzione iniziata da Leopoldo".

Il suddetto giudizio dello storico evidenzia che gli aretini, spinti dalla fame, che li opprimeva, maturarono uno spirito ribelle col tempo, quasi come se essi sui francesi avessero sfogato un malcontento, le cui radici risalivano al passato. Zaghi, inoltre, nota come in questa rivoluzione, il popolo si appoggiasse a quella borghesia e a quella nobiltà che erano le più contrarie al loro benessere.

Il moto di Viva Maria è però un momento di ampio respiro della folla, poiché la Suprema Deputazione, impegnandosi a consacrare Arezzo come capitale e centro d’irradiazione delle forze antifrancesi, dette pane in abbondanza a tutti.

Pesendorfen ritiene che il fatto che la Toscana non s’impegnò attivamente nella lotta antinapoleonica e che il Viva Maria non fu una rivoluzione globale dipese "…dalla scarsissima tendenza alle ideologie astratte, (…) dalla mancanza di una città paragonabile a Parigi e di un proletariato proporzionalmente forte. A tutto ciò veniva ad aggiungersi la controspinta ideologica della chiesa cattolica".

Pur ammettendo una tendenza antigiacobina nei toscani, dobbiamo però che l’atmosfera della Rivoluzione Francese filtrò anche nel Viva Maria. Gli effetti del trittico rivoluzionario influì anche in Toscana : gli aretini, nemici dei francesi, combatterono gli ideatori della Rivoluzione con un’atto rivulizionario; combatterono i giacobini, però, la politica della Suprema Deputazione fu equa nell’uguaglianza a quella dei nemici.

L’esempio del coraggio rivoluzionario del 1789 fu interiorizzato anche dagli aretini : il Viva Maria non fu altro che un esempio di coraggio della disperazione, lo stesso di quello che dieci prima aveva fatto scoppiare in Francia la Rivoluzione.

La rivolta delle bande aretine dimostrò che il trittico ideologico-rivoluzionario fu assorbito anche dai reazionari, dal momento che quello aretino fu un moto contrario ai francesi e ai giacobini.

BIBLIOGRAFIA

 

- Chrisolino, Insurrezione dell’inclita e valorosa città di Arezzo, Città di Castello, 1799, Tomo I;

Documenti inediti dell’insurrezione aretina, Biblioteca della Città di Arezzo, 1868;

F. PESENDORFEN, Ferdinando III e la Toscana, Sansoni, Firenze, 1986;

I. TOGNARINI, Arezzo tra rivoluzione ed insorgenze, Aretia Libri, Arezzo, 1982;

C. ZAGHI, Storia d’Italia, vol. XVIII, Torino, Utet, 1986;

A. ZOBI, Historia civile della Toscana, vol. IV, Biblioteca Nazionale della città di Firenze, 1848.