UNIVERSITA' DI LETTERE

AREZZO

 

LA MASCHERA NEL TEATRO DELL'ASSURDO: IN IONESCO E GENET

 

STORIA DEL TEATRO



PROF. LAURA CARETTI


ANNO ACC. 2001-2002

 


Studente: Prof. Massimiliano Badiali







Iscritto al IV anno
Tesi completata con il Prof. Matucci dal titolo Il romanzesco nel Fermo e Lucia.
Esami sostenuti: 18




L'elaborato esamina la simbologia della maschera, che, attraverso il mondo classico e passando poi per la Commedia dell'Arte, giunge al nostro secolo. La maschera appare o scompare dal volto degli attori in scena di alcune pièces di Genet, Ionesco, Beckett e Pirandello. In queste opere l'attore subisce semplici trasformazioni del corpo e del volto, che poco a poco trasportano il pubblico in una serie stupefacente di maschere grottesche, comiche e tragiche.
Il pubblico, che viene chiamato ad interagire, talvolta diventando partner dell'attore, si trova così a riscoprire un'arte antica e modernissima allo stesso tempo, un'arte dalla forza rituale, capace di emozionare e stupire, capace di far interrogare sulla forza delle radici. Uno spettacolo nato dal bisogno dell'artista di comunicare una piccola goccia di quell'universo misterioso e arcaico che noi occidentali rischiamo di dimenticare o banalizzare nelle brevi occasioni carnevalesche che ci restano.
Un universo di cui noi Italiani in particolare dovremmo portare memoria viva attraverso la nostra Commedia dell'Arte che ci fa tuttora noti in tutto il mondo, ma che noi per primi abbiamo chiuso in una sorta di memoria museale.
Un viaggio vivo dunque , per tutti, dovunque. Un viaggio teatrale per incontrare ed incontrarsi.

ABBREVIAZIONI

J. : sta per Jacques ou la Soumission, in E. Ionesco, Théâtre, Paris, Gallimard, 1994, pp. 97-130.
N. : sta per Les nègres di J. Genet, Gallimard-Folio, Paris, 2001.





















La maschera sicuramente agli albori del teatro aveva un forte valore rituale, non per niente degli originali in legno, sughero e lino nulla è rimasto, mentre possiamo studiare e ammirare i resti delle copie in terracotta e marmo offerte in dono a Dioniso.
La maschera non si limitava a coprire il volto, ma rivestiva tutta la testa: aveva infatti anche i capelli! Gli antichi greci la usavano anche nei trionfi, nelle pompe pubbliche, nei banchetti ed i pagani celebravano il fiorire della primavera, mascherati, con la libertà di rappresentare chiunque avessero voluto.
Si desume dalle poche fonti che i drammi, di argomento più mitologico che storico, fossero interpretati da un solo attore, il quale usava le maschere per cambiarsi di ruolo. Riguardo ad esse abbiamo notizie da Polluce (sofista e grammatico greco del II sec. d.C.). Da lui si evince che le maschere usate dagli attori Greci fossero per lo più fatte di stoffa gessata, corredate da parrucche. Esse avevano la capacità di amplificare la voce come se fossero dei microfoni: dirigevano al meglio la voce, a qualsiasi distanza (fino a 18 metri dall'orchestra).
Naturalmente la maschera serviva a caratterizzare il personaggio, quindi era fatta in modo tale da indicare l'età, il ceto di appartenenza, lo stato d'animo e il carattere di un personaggio. Essa era parte integrante del teatro, concepito come un vero e proprio rito collettivo, con funzione persino di purificazione. Infatti, secondo Aristotele, tutte le forme di teatro, (ma prevalentemente la tragedia) avevano una funzione catartica in quanto servivano a rappresentare l'inconscio umano.
Le maschere romane, sul modello di quelle greche, erano di tela su cui era applicata una capigliatura. Il loro uso facilitava l'interpretazione degli attori che dovevano impersonare più ruoli o personaggi di aspetto simile da parte di uno stesso attore: immaginiamo che attraverso la stessa maschera un attore poteva interpretare personaggi come Anfitrione o Sosia dell'Amphitruo di Plauto e i loro doppioni.
Nel teatro medioevale le maschere comparivano come raffigurazione delle anime dei morti o degli esseri diabolici. Il termine maschera, forse derivante dal longobardo "mascka", significherebbe, per alcuni critici, larva, strega, demonio: rappresentava le anime dei trapassati che, evocati attraverso riti propiziatori, salivano sulla terra per auspicare un abbondante raccolto.
Le maschere del periodo rinascimentale assunsero solo carattere artistico e soltanto nei secoli successivi divennero facile mezzo per coprire scandali ed intrighi. L' uomo mascherato divenne l'essere che egli stesso voleva rappresentare e apparire agli spettatori.
Con la Commedia dell'Arte, che dalla metà del Cinquecento fino al Settecento rappresentò il più singolare fenomeno della storia teatrale, nacquero le famose maschere del teatro italiano, introducendo in scena ciò che poteva divertire il pubblico. Essa volse la sua attenzione ai risvolti comici della vita popolaresca nelle piazze, al mondo del folclore. Lo spirito popolare oppresso, ad esempio, ridicolizzava gli spagnoli con un buffo "capitano".
La caratteristica più peculiare e permanente della Commedia dell' Arte, il suo aspetto più noto, è costituito dai personaggi nettamente definiti e quasi immutabili detti "tipi fissi". Questi sono i personaggi principali dei comici italiani: i due vecchi (Pantalone e Dottore), il primo e secondo Zanni o servo (es. Arlecchino e Brighella), il Capitano (Matamoros, o Rodomonte, ecc), le due coppie di Innamorati (es. Florindo e Beatrice, Lelio e Clarice, ecc.), la Fantesca o serva (es. Smeraldina, o Corallina, ecc.). I personaggi sono con o senza maschera. I tipi scenici si suddividono in due categorie: le parti gravi e le parti ridicole. Nel primo caso si tratta di una o più coppie di Innamorati, nel secondo dei personaggi in maschera e della serva. Si può anche sostenere che tali maschere non nascano da un disegno preciso, o razionale, quanto piuttosto dall'intuizione di gruppi di comici, che traducono i favori e i gusti del pubblico popolare. Il ritmo, le improvvisazioni e i lazzi tipici della Commedia dell'Arte sono presenti anche in Arlecchino servitore di due padroni di Carlo Goldoni, ove l'intreccio appare assai mosso e ricco di colpi di scena ed equivoci. La maschera non è indossata dagli attori, ma l'identità del personaggio è minata tramite il ricorso a travestimenti: Beatrice nella scena III del I atto "entra in abito da uomo, sotto nome di Federico" .
La maschera sembra sparire dal volto degli attori, per entrare dentro il palcoscenico, nella scena stessa: attraverso il metateatro, attraverso la mise en abime testuale: la rappresentazione nella rappresentazione crea un'occasione per rendere esplicito il meccanismo della scena - ciò che avviene dietro le quinte, le tecniche della costruzione di uno spazio e dei suoi elementi - che ben rappresenta il gusto della cultura seicentesca per il concetto di "macchina", di automatismo meccanico. Il "metateatro" serve a ricostruire ciò che si sta perdendo: innanzitutto un "centro del mondo", un luogo che rappresenti il punto di ricomposizione di un universo in cui l'uomo ha perso la sua centralità.
Se passiamo a considerare la funzione della maschera nel teatro contemporaneo d'italia, non possiamo non soffermarci sull'analisi dell'opera di Pirandello. L'uomo nell'opera del grande scrittore è privo di illusioni ed estraniato, che rincorre una vita che gli sfugge, costretto dalla società a non essere o ad apparire attraverso la menzogna sociale: egli indossa la maschera nel proprio inconscio, poiché, scisso da se stesso e dalla società, vive la propria solitudine senza scampo, negandosi la possibilità di comunicare oppure comunicando l'impossibilità del dramma di realizzarsi sulla scena.
La maschera più grande la si possiede nel cuore, poichè per Pirandello essa rappresenta il vano tentativo dell'uomo di vivere nella forma (secondo quelle costrizioni morali imposte dalla società, che Freud attribuiva al Superego), poiché una vita con la forma non si può vivere, ma neppure senza forma (cfr. Il Fu Mattia Pascal). La maschera che copre il reale deve essere perforata, poiché il flusso continuo della vita liberi l'uomo dalle catene che la forma gli impone. Pirandello toglie la maschera alla finzione scenica, attraverso il suo teatro nel teatro che consiste nell'abbattere quella immaginaria quarta parete che divide gli attori dal pubblico dà la percezione che quanto si sta recitando è pura finzione.
Pirandello propone che si reciti in platea, cosicché lo spettatore maturi la consapevolezza di vivere una rappresentazione collettiva, specchio della realtà (Sei personaggi in cerca d'autore). Ma ciò che conta è la funzione di ricostruzione dello spazio scenico, che, al contrario di ciò che avveniva nel teatro barocco, non è più incluso nella realtà, ma diventa il contenitore di essa. La scena tende ad includere il pubblico, che viene chiamato a partecipare - emotivamente e fisicamente - alla rappresentazione.
In Sei personaggi in cerca d'autore I personaggi indossano una maschera scenica sul volto:
Ma il mezzo più efficace e idoneo che qui si suggerisce sarà l'uso di speciali maschere per i Personaggi: maschere espressamente costruite d'una materia che per il sudore non s'afflosci e non pertanto sia lieve agli Attori che dovranno portarle: lavorate e tagliate in modo che lascino liberi gli occhi, le narici e la bocca .

Sul palcoscenico di un teatro, dove si sta rappresentando un dramma pirandelliano, Il gioco delle Parti, irrompono sei personaggi che, rifiutati dall'autore, cercano qualcuno che li rappresenti sulla scena- che dia loro, quindi, una consistenza-. Fra lo sbigottimento degli attori, in un susseguirsi di interruzioni e di riprese caotiche, ciascuno di loro (il Padre, la Madre, Il Figlio, la Figliastra, il Giovinetto, la Bambina) racconta il torbido dramma di rapporti familiari, finchè si arriva alla tragedia finale: la Bambina annega in una vasca da bagno e il Giovinetto si spara.
Ma - e qui sta il paradosso- questi fatti potevano essere , ma non sono avvenuti, in quanto ciascuno dei personaggi vive allo stato fluido: l'autore ha rifiutato di dar loro una forma perché essa non rispecchierebbe la vita, e sarebbe come ammettere che ognuno di noi è uno, mentre è "tanti, tanti, secondo le possibilità d'essere che sono in noi: uno con questo, uno con quello! Diversissimi!" , poiché siamo tutti "uno, nessuno e centomila".
L'autore non ascolta dunque le richieste dei personaggi, perché il vivere nel flusso esistenziale rappresenta la misteriosa e tragica condizione esistenziale : che è quanto egli vuole dimostrare nel suo teatro. Attori e pubblico non distinguono più tra finzione e realtà: calato il sipario, ci si accorge che l'autore ha sostituito al dramma la dimostrazione dell'impossibilità di rappresentarlo. Nell'opera la maschera diventa il teatro stesso, metafora di una forma che imprigiona l'esistenza stessa del personaggio.
La rivoluzione teatrale di Pirandello per molti temi rimanda al rinnovamento della scena teatrale, che è opera soprattutto del "teatro dell'assurdo", attorno agli anni '50.
L'assurdo non designa alcun movimento organizzato, ma corrisponde a un clima d'angoscia negli scrittori dopo la Seconda Guerra mondiale: la critica letteraria ha proposto di raggruppare sotto questa espressione degli autori drammatici che, pur lavorando isolatamente, condividono tuttavia in comune la creazione di pièces tragiche dove la condizione umana è percepita come contraria alla ragione, insensata, senza avvenire, emblema dell'incomunicabilità dell'uomo moderno in un universo disumanizzato. I temi ossessionnanti di questi autori sono l'invecchiamento, la fuga temporis, la morte la paura e l'attesa. In questo clima, nessun valore resiste : nè l'amore, né la giustizia, nè l'azione. Come esemplificato nel teatro di Beckett, i personaggi non hanno ruolo da recitare: aspettano, invano, che qualcosa venga a rompere il corso della loro vita miserabile e immobilizzano il tempo con l'evocazione precisa, derisoria, assurda, dei loro gesti quotidiani. I dialoghi sono pieni di giochi di parole e di trovate farzesche ed espedienti grotteschi per rivelare il non sense della condizione umana. I personaggi, stranieri nel mondo si presentano come degli anti-eroi. Il loro spazio d'azione è vuoto e anche il tempo scorre incessantemente. In questo universo spesso prevale l'afasia o l'incomunicabilità : i personaggi usano un linguaggio vuoto, meccanico e artificiale. Anche i generi teatrali si mescolano in quanto tragedia e commedia, angoscia e humor convivono:
Ils vont rire, ils vont bouffer, ils vont danser sur ma tombe .

Il teatro di Eugène Ionesco, irresistibilmente comico, nasce da un'intenzione pessimistica dell'esistenza e non è certo un caso che i temi a fondamento delle sue pièces siano la solitudine e l'isolamento dell'individuo, la sua difficoltà nel comunicare con gli altri, la sua soggezione a degradanti influenze esteme sia al conformismo meccanico della società che alle pressioni ugualmente degradanti della sua stessa personalità - la sessualità e il conseguente senso di colpa, l'ansietà che derivano dall'incertezza della propria identità e dalla certezza della morte". Ma questa condizione dell'uomo può essere espressa, secondo lonesco, solo attraverso la parodia, la derisione, l'anti-teatro. Egli stesso ha definito significativamente La Cantatrice Chauve (anti-commedia), Les Chaises (farsa tragica) ecc. .
L'incipit della pièce Jacques ou la soumission viene presentato attraverso il mascheramento potenziale del volto degli attori nella scena:
Sauf Jacques les personnages peuvent porter une masque (J. p.101).

Per Ionesco tutti i personaggi di Jacques ou la Soumission potevano essere mascherati. Da questo gioco di sdoppiamento, l'autore apre la possibilità della mise en abîme del suo stesso testo, per celebrare le nozze del ridicolo, del crudele, dell'assurdo e del comico.
L'unico che ha dignità di personaggio è il protagonista Jacques: gli altri sono soltanto un insieme di caricature oggetto, sia per lo scrittore che per il pubblico, di derisione grottesca. I componenti della famiglia del protagonista non hanno nomi, ma la loro identità è funzionalmente legata al grado di parentela con Jacques: la madre è denominata "Jacques, mère", il padre "Jacques, père", la sorella "Jacqueline" ecc.
La pièce prende di mira la borghesia, mettendone in ridicolo le abitudini e il conformismo. Alla famiglia prototipo del conservatorismo sociale, legata alle tradizioni più banali, il protagonista oppone un silenzio eloquente, che lascia spazio al pubblico di esplodere nel suo riso stridulo e amaro.
Nell'apertura della commedia assistiamo ad un atto di accusa familiare per il protagonista: la madre, sciorinando i sacrifici sopportati, manipola con i sensi di colpa Jacques chiamandolo "fils ingrat" (J. p. 102), il padre, appellandosi al concetto tradizionale di stirpe, gli urla di non essere "digne de ma race" (J. p. 103). Quando la sorella Jacqueline si richiama al "bon sang" che "ne peut mentir" (J. p. 106), Jacques si sottomette vinto, volente o nolente, per la prima volta alla logica del ventre, ammettendo quello che voleva sentir dire la famiglia:
Eh bien oui, oui, na, j'adore les pommes de terre au lard (J. p. 107).


Naturalmente il cibo diventa oggetto di scherno da parte dell'autore, che critica le tradizioni terra a terra legate al mito della famiglia borghese.
Anche il matrimonio è un'istituzione derisa da Ionesco: i discorsi dei componenti familiari rivelano che l'individuo è un robot sottoposto ai meccanismi sociali, una bestia comandata dagli istinti e dall sessualità. Il matrimonio è un mercato di scambio di carni, legittimato da una riunione bifamiliare, davanti a un religioso pagliaccio: Jacques rifiuta la prima sposa Roberte perché non si è ancora sottomesso alla legge del piacere. Nelle parole del protagonista si rivela un iniziale rifiuto della moglie classica, che gli propini la stessa minestra borghese di cibo e sesso:
Ca marchera avec les pommes de terre (J. p. 113).

Lo stesso protagonista appare disgustato dalla società e dalle sue norme e soprattutto dalla creazione e procreazione. Vorrebbe una donna con "trois nez" (J. p. 115), con tre profili comme la Trinità (evidente parodia del Cristianesimo), come dice il protagonista "trinaire" (J. p. 116); Roberte "n'est pas assez laide" (J. p. 117) per essere mostruosa, per opporsi al culto borghese della bellezza che Jacques ora rifiuta. Jacques in prospettiva comica e grottesca si erge con una rivolta metafisica, che rimanda a quella dell'Homme Révolté di Camus, contro la propria condizione e contro la creazione impostagli dalle regole familiari delle "bonnes traditions" (J. p. 120) e afferma di esistere:
Je suis ce que je suis (J. p. 121).

Con la seconda Roberte, che è sorella della prima, Jacques dà libero sfogo al suo rapporto di conflitto con la famiglia, che gli ha mentito sulla realtà dell'esistenza:
Oui, j'ai vite compris. Je n'ai pas voulu accepter la situation. Je l'ai dit carrément. Je n'admettais pas cela […] On me promit des décorations , des dérogations, des décors […] J'insistai. Ils me jurèrent de me donner satisfaction. Ils m'ont juré, rejuré, promesse formelle, officielle, présidentielle. Enregistrée…Je fis d'autres critiques pour finalement leur déclarer que j'aimais mieux me retirer, comprenez-vous? Ils me répondirent que je leur manquerais beaucoup. Bref, je posais mes conditions absolues! Ca devait changer, dirent-ils […] Pour m'amadouer, on me fit voir des sortes de prairies, des sortes de montagnes, quelques océans…maritimes naturellement….Les prairies n'étaient pas mal du tout…je m'y ssuis laissé prendre! Tout était truqué…Ah, ils m'ont menti. Des siècles et des siècles ont passé! Les gens .. ils avaient tous le mot bonté à la bouche, le couteau sanglant entre les dents…vous me comprenez […] Is m'ont trompé…Et comment sortir? Ils ont bouché les portes, les fenêtres avec du rien, ils ont enlevé les escaliers […] Je veux absolument m'en aller. Si on peut pas passer par le grénier, il reste la cave …oui la cave..Il vaut mieux passer par en bas que d'être là. Tout est préférable à ma situation actuelle. Même une nouvelle. (J. pp. 123-124).

L'ideale borghese è un pasticcio di profano travestito di sacro: i buoni sentimenti del Cristianesimo travestono la violenza della società in sangue del sacrificio. La colpevolezza malata della società, per Ionesco, si trasforma nella figura del rinoceronte, che sta proprio a rappresentare la barbarità nascosta degli esseri umani e l'assurdità dell'universo, resa attraverso un'immagine brutale e violenta che serve per dare un'immediata percezione del caos, del non senso dell'esistenza.
Jacques rifiuta questo modello ipocrita e falso insegnatogli e impostogli dalla famiglia; all'infinocchiamento ideologico borghese preferisce una vita solo biologica : scendere nella "cave", nel proprio inconscio ed essere dominato solo dall'istinto. Roberte II glielo consente. Attraverso il mondo onirico di Roberte, che racconta di aver visto in sogno un porcellino d'India, Jacques è preso dal
desiderio. La donna lo abbraccia, diventa acqua, donna-palude, incarnazione dell'elemento femminile, che Ionesco si diverte a caricaturare:
Viens..ne crains rien..je suis humide..J'ai un collier de boue, mes seins fondent, mon bassin est mou, j'ai de l'eau dans mes crevasses (J. p. 127).

Jacques cede alle moine della donna e la sessualità invade il suo mondo. Anche le effusioni fra i due sono molto terrene e rasentano una forte volgarità: l'uomo chiama Roberte "chatte" (J. p. 129), che letteralmente vuol dire gattina, ma che in francese corrente indica anche l'organo genitale femminile. Il personaggio dal rifiuto della condizione umana è condotto dalla donna alla sottomisione più completa: la vis biologica compromette la libertà dell'uomo e lo rende unidimensionalmente borghese: amante, marito e riproduttore in potenza.
Jacques è un "momonstre chronométrable" (J. p. 117), che dopo essersi rifiutato di adorare le patate al lardo, sarà reintegrato nella razza.
Nella pièce l'uso della maschera assume un valore emblematico: essa è simbolo di finzione, simbolo di apparente accettazione delle norme borghesi. Tutti i personaggi, tranne Jacques e Roberte II, sono truccati "grimés" (J. p. 101), comme delle caricature: essi non hanno neppure dignità di maschera, perché sono automi, schiavi inconsapevoli della vita. Se Jacques non ha la maschera, poiché è l'unico a percepire il flusso continuo che persiste nella vita, anche Roberte in sostanza non la indossa, poiché dal suo viso trino, composto da due maschere laterali, fuoriescono gli occhi, la bocca e il mento.


Sotto le apparenze della maschera, che la fa accettare agli occhi del conservatorismo familiare, la donna rappresenta ciò che Jacques diventerà: mascherato agli occhi degli altri, e perciò finto, ma protagonista dei propri istinti.
La maschera riappare anche nella pièce di Jean Genet Les nègres (1959). Genet è stato per molti anni un caso letterario e umano, quello di un pericoloso delinquente, che in carcere ha scoperto la sua vocazione di poeta e ha finito col diventare lo scrittore che volge le spalle all'essere per situarsi di proposito nel nulla, preferendo l'immaginazione al reale. Il teatro è stato per Genet, nei suoi capolavori, la forma espressiva ideale per realizzare sulla strada tracciata per primo da Pirandello con il teatro nel teatro, una drammaturgia tutta fondata su un cerimoniale: un cerimoniale fatto di irrealtà, riflesso di un riflesso, gioco di specchi spinto fino all'estremo della rarefazione:
Mais je reste libre d'aller vite ou lentement dans mon récit et dans mon jeu. Je peux me mouvoir au ralenti? Je peux multiplier ou allonger les soupirs? (N. p. 31).

Dal 1949 al 1961 si consacra interamente al teatro per il quale aveva già messo in scena Les Bonnes (1947), Le Balcon (1956), Les Paravents (1961). In tutta l'opera di Genet, romanzesca e teatrale, si trova un capovolgimento totale dei valori: Bataille nel saggio La Letteratura e Il Male dice che Jean Genet è un autore che ricerca il male. La sua opera è nutrita dal senso di rivolta che dipende dalla esclusione sociale dell'autore, da cui ne nasce una rivendicazione abietta. Genet va al di là di ogni convenzione: la sua omosessualità, il distacco dal mondo e questa volontà esasperata del male, hanno dei caratteri patologici . E' come se nascesse "una rappresentazione invertita di sanità" . Ogni passo verso il male gli sembra un passo in avanti verso la consacrazione che egli chiama "santitè". Per raggiungere questi obiettivi fa recitare personaggi che appartengono al suo mondo, quello degli esclusi, dei criminali, degli omosessuali affinchè possano rappresentare un mondo che non esiste, un mondo di cui essi non hanno alcuna esperienza, facendo fìnta di considerarlo come un mondo reale. In Les nègres sono degli attori negri, che recitano in un teatro per una platea composta da un pubblico solo di bianchi:
Cette pièce, je le répète, écrite par un Blanc, est destinée à un public de Blancs. (N. p.15).

L'autore si diverte ad ipotizzare tutte le varianti possibili nella rappresentazione:
Mais si, par improbable, elle était jouée un soir, devant un public de Noirs, il faudrait qu'à chaque représentation, un Blanc fût invité - mâle ou fémelle. L'organisateur du Spectacle ira le recevoir solennellement, le fera habiller d'un costume de cérémonie, et le conduira à sa place, de préférence au centre de la première rangée des fauteuils, d'orchestre. On jouera pour lui. Sur ce Blanc symbolique un projecteur sera dirigé durant tout le spectacle. Et si aucun Blanc n'acceptait cette représentation? Qu'on distribue au public noir à l'entrée de la salle des masques de Blancs. Et si les Noirs refusent les masques qu'on utilise un mannequin (N. p. 15).

I personaggi neri Ville de Saint-Lazaire, Village, Archibald ecc. indossano tutti una maschera e per sevire il pubblico, useranno i "fards d'un beau noir luisant" (N. p. 24). I negri propongono un rituale che acquisisce ed esaspera l'opposizione con gli spettatori bianchi, evidenziando l'incomunicabilità fra le due razze, come afferma Archibald:
La distance qui nous sépare, originelle, nous l'augmenterons par nos fastes, nos manières, notre insolence-car nous sommes aussi des comédiens (N. p. 26).

Il rito de Les nègres non si può compiere senza spettatori, poiché lo spettacolo comincia con l'affluire del pubblico, che è funzionalmente necessario al gioco del teatro nel teatro. Come affermò Genet stesso all'attore:
Tu devi essere l'immagine che sei, devi essere il prete, la puttana, lo specchio o gli specchi, il sacrificio rituale.. devi crederci, devi danzare sulla strada. Il teatro è una esagerazione, al di fuori di ogni figura mentale, è una metafora della vita, una metafora paradossale .

Questi attori sono la feccia della società, doppiamente esclusi dal preconcetto del perbenismo borghese, in quanto neri ed attori: di fronte ai rappresentanti della Corte dei bianchi, composta da La Reine, Le Juge, Le Valet, Le missionaire et le Gouverneur, essi si macchiano di un crimine nero per antonomasia, che consiste nello stupro e nell'omicidio di una donna bianca. Lo spettatore a questo punto si trova perplesso, poiché nella Prefazione Genet aveva affermato che nella Corte:
Chaque acteur en sera un Noir masqué dont la masque est un visage de Blanc posé de telle façon qu'on voie une large bande noire autour et meme les cheveux crépus (N. p. 20).

Insomma siamo davanti ad una commedia scritta da un bianco recitata per bianchi, in cui gli attori sono tutti neri, truccati da neri o da bianchi.
Gli attori diventano vettori di parole, fagocitatori di emozioni, tamburi vibranti che battono il tempo, il ritmo emotivo sulle tavole del palcoscenico. In questo luogo ciò che si frantuma è la forma o la formalità occidentale reale e teatrale, tutto si scarnifica per perdere strati ed arrivare ad una danza primitiva di corpi che si ribellano ad ogni forma di costrizione, perdendosi in caos provocatorio, in un fiume di parole varcato da una corrente dionisiaca. Tutto diventa rito, funerale festoso, carnevale a lutto. Urlo inesorabile. Il coinvolgimento è totale, il pubblico stesso è chiamato a responsabilizzarsi, a schierarsi, a divenire parte attiva della rappresentazione. Le invettive fra le razze si basano su caricature verbali; i negri, ad esempio, usano una lingua, ricca d'enfasi e di rabbia; riportiamo le parole d'Archibald:
Je vous ordonne d'être noir jusque dans vos veines et d'y charrier du sang noir. Que l'Afrique y circule, Que les nègres se nègrent. Qu'ils s'obstinent jusqu'à la folie dans ce qu'on les condamne à être, dans leur ebène, dans leur odeur, dans l'oeil jaune, dans leurs goûts cannibales, Qu'ils ne se contentent pas de manger les Blancs, mais qu'ils se cuisent entre eux. Qu'ils inventent des recettes pour les tibias, les rotules, les jarrets, les lèvres épaisses, que sais-je, des sauces inconnues, des hoquets, des rots, des pets, qui gonfleront un jazz délétère, une peinture, une danse criminelles. Que si l'on change à notre égard, Nègres, ce ne soit par l'indulgence, mais la terreur! (A Diouf : - Et vous, monsieur le Grand Vicaire, pour qui le Christ est mort en croix, il faut vous décider (N. p. 60).

Il teatro diventa un luogo mentale infinito e finito nella perimetrazione del palcoscenico dove la totale libera espressività dà vita a uno spazio della non recitazione; dove a tutti viene data la possibilità reale di espressione di rappresentazione. In questo continuo gioco di riflessi s'inserisce il forte ricorso a chiasmi, che si ripetono in tutto il testo: il colore nero di Neige, l'"hostie noire" (N. p. 43), che Le Missionaire crede che sarà inventata dai negri ecc. Si finisce, così, col perdersi tra la realtà e l'illusione ed è questo fluttuare che mira a favorire la celebrazione del testo teatrale. La realtà non trova spazio nella scena e sono gli stessi Negri, vestiti da bianchi a dover decidere se "condamner et d'exécuter un Nègre" (N. p. 84): non si tratta più di recitare, dice Archibald, poiché " l'homme que nous tenons et dont nous sommes responsables est un homme réel" (N. p. 84). All'annuncio dell'avvenuta esecuzione le maschere bianche cadono, e vengono riassunte solo per terminare la rappresentazione; come confessa La Reine:
Nous nous étions couverts d'une masque à la fois pour vivre l'abominable vie des Blancs et pour vous aider à vous enliser dans la honte, mais notre rôle deb comédien tire à sa fin (N. p. 112).

In questa pièce tutti i personaggi sono mascherati, poiché la maschera è data dalla vita umana stessa nella sua illogicità. Sia i (finti) bianchi che i neri sono protagonisti di una realtà scenica che vuole suggerire che il mondo in cui viviamo non è che illusione e finzione.
Allora qual'è la risposta che Genet ci pone nella Prefazione : "Qu'est-ce que c'est donc un noir"? (N. p. 15). La risposta è che "un nègre est un nègre" (p. 108), come un uomo è un uomo. La commedia sociale fra neri e bianchi è solo il pretesto per guardare i diversi: i diversi da noi. Genet solleva il problema dell'incomunicabilità fra noi e l'altro, affermando l'uguaglianza di tutti gli individui nella loro diversità. Se gli spettatori fossero stati neri invece di bianchi, e gli attori tutti bianchi invece che neri, non cambierebbe nulla, poichè l'uomo non è in grado di vedere la realtà: neri e bianchi sono attori e spettatori della stessa commedia, che è la vita. L'unico sentimento che accomuna tutti gli uomini è il dolore, perché la vita è un'inferno che si protrae nell'aldilà, come afferma in un'allegoria La Reine:
J'y condurai mon troupeau de cadavres que vous ne cessez de tuer pour qu'ils vivent et que vous ne cessez de faire vivre afin de les tuer (N. p. 120).

Come in Ionesco e in Genet, i personaggi di Beckett vivono nella stessa valle di lacrime della vita, tra l'urlo della nascita e il rantolo della morte. Essi sono solo delle povere larve, che chiacchierano, balbettano, scherzano, aggregano sillabe banali e spesso insensate. Beckett ha iniziato, negli stessi anni di Ionesco, il teatro cosiddetto dell'assurdo: Waiting for Godot (En attendant Godot, 1952) racconta la vana attesa da parte di due vagabondi (Vladimir ed Estragon) di un personaggio misterioso, Godot , che non arriverà mai, chiudendosi in un finale aperto che suggerisce un'eterna, tormentata ripetitività. La dimensione dell'opera trascende il dato personale per sciogliersi nell'anonimato nell'attesa di qualcosa che non si sa, di qualcuno che non viene, nel suo tempo dilatato, nelle sue pause e nella dialettica fra i personaggi spinta all'estremo.
Play è una pièce che prevede un triangolo formato da due uomini e una donna. Essi come i personaggi di Jacques ou la soumission non hanno nomi propri, ma sono indicati con sigle (M1, W1 e W2). I personaggi non indossano una maschera facciale, ma quest'ultima sembra trasferirsi dalla mente nel loro corpo e applicarsi e impossessarsi della loro stessa anima : essi sono immobilizzati in tre gigantesche urne, in cima alle quali si vedono solo i loro volti. Appena illuminati da un debole chiarore i tre incominciano a parlare contemporaneamente, poi un riflettore illumina violentemente i volti: il personaggio colpito dalla luce dice la propria battuta per interrompersi quando il rifIettore si sposta su un altro volto. Ciascuno narra dal proprio punto di vista: parlano senza ascoltarsi di una classica situazione a tre, di un adulterio che è finito con una separazione.
Attraverso la didascalia Repeat play, cioè la ripetizione delle identiche battute dette in precedenza, Beckett crea nello scritto un effetto circolare, senza inizio né fine, tramite l'idea di un dialogo interrotto e ininterruttibile, che potrebbe continuare all'infinito. Questi più che personaggi, sono rubinetti di magma verbale, imprigionati in un girone infernale, dannati a parlare incessantemente della loro vita e dei loro vizi.
In questo percorso sulla maschera, vorrei personalmente notare come la maschera riveli nuove parti della personalità umana, quegli 'aspetti - ombra' legati al mondo inconscio che nella nostra anima stanno emergendo utilizzando vesti simboliche. Ma essa cela prima che mostrare. Nasconde l'identità, o insinua il sospetto dell'ambiguità. E allora protegge; dal giudizio, come dagli sguardi intrusivi di chi ci conosce e, perciò, possiede delle specifiche aspettative nei nostri confronti. È proprio attraverso di essa, utilizzando richieste costanti e proiezioni specifiche, che gli 'altri' finiscono col creare a loro volta una maschera, che, per di più ci sentiamo costretti ad indossare.
Un'identità di ruolo viene creata per noi, un modo di presentarci e di interagire col mondo che crediamo ci appartenga, ma che inerisce molto di più all'esterno stesso. La maschera, insomma, - quella carnevalesca come quella classica del teatro antico, come quella del teatro di Ionesco e Genet - fornisce sempre un'identità. Sia essa fittizia e illusoria, del tutto fuorviante rispetto al vero volto che vi si nasconde, o illuminante e traditrice.
In questo secolo di false luci troppo pretenziose per ricordare le proprie tenebre, resta come ultimo testimone la maschera a rammentarci le nostre caverne. Fuoco fatuo di un rapporto magico con la vita, seconda pelle, la maschera racconta al nostro viso, impronta mortale di un'eternità effimera, che è troppo povero per esprimere la profondità delle rughe dove nasceranno i nostri fantasmi.
La maschera aspetta un corpo per far esplodere la propria vita in mille schegge nelle quali si mescolano i sogni e le angosce, il riso e i pianti, la nostra grandezza e la nostra debolezza. Attraverso l'alchimia del gioco, il corpo viene strappato al realismo, per esprimere l'organico e raccontarci che l'amore e la morte costituiscono sempre la metafisica dei primi passi dell'uomo e che tutto ciò che resta non sono che false illusioni, falsi labirinti nel nostro deserto psicologico.




































G. Bataille, La Letteratura e il male, Milano, rizzoli, 1973.
S. Beckett, Teatro completo, Torino, Vol I., Einaudi, 1994.
J. Genet, Les nègres, Paris, Gallimard, Editions Folio, Paris, 2001.
J. Genet, Teatro Completo, Torino, Einaudi, 1978.
C. Goldoni, Arlecchino servitore di due padroni, Milano, Rizzoli, 2001.
E. Ionesco, Théâtre, Paris, Gallimard, 1994, pp. 97-130.
E. Ionesco, Le roi se meurt, Paris, Gallimard, Editions Folio, Paris, 1963.
L. Pirandello, Sei personaggi in cerca d'autore, Milano, Mondadori, 1990.