MASSIMILIANO BADIALI

RECENSIONE A ASPETTANDO IL TUO RITORNO DI GIOVANNA GARZIA

Aspettando il tuo ritorno è una raccolta che evidenzia un’ ulteriore maturazione dell’arte poetica di Giovanna Garzia: la poesia diviene un sinodo di vari sostrati di linguaggio, tra cui domina l’accostamento sintomatico del discorrere quotidiano insieme al rimando al mito classico. L'Amore è la tematica monocorde della raccolta poetica: esso diviene tormento, rievocazione, strazio, dolcezza e speranza, poiché è la sorgente viva del magma originario dell’io poetico. I sentimenti della res extensa vengono prima di ogni esperienza dalla res cogitans. Prima si soffre, poi si riflette sul dolore. Prima si avvertono solitudine e dolore e amore e poi, in un secondo tempo, ciò che ne segue: il voluto, il pensato, il negato e l’ottenuto. L’Amore poetico finisce per assumere ogni nuance emotiva: dalla passione funesta alla tensione estatico-contemplativa, per stagliarsi e incarnarsi come la reduxio ad unum di un universo interiore. L’Amore non è quindi rivolto ad un soggetto unico, ma è frutto della frantumazione sentimentale affettivo-mnestica: di fronte al dolore, c’è il pianto, la manifestazione melica più individuale ed intima, nascosta, di una sofferenza altrimenti inesprimibile ed allo stesso tempo un grido universale ed esteso, quasi, al dolore di tutti gli esseri viventi, reso con versi icastici, dal ritmo particolarmente franto e singhiozzante– anche attraverso una densa filigrana di rimandi testuali e concettuali alla figura di Didone-, lontano comunque sia da tentazioni nichilistiche ed autodistruttive, che da prospettive consolatorie di marca spirituale-cristiana, ma sempre confortato dalla lezione della poesia classica. Inconsciamente o coscientemente collegato al trauma della scomparsa della madre, gli amori descritti nella raccolta, si riconnettono e convergono tutti a questo epicentro della frattura psichica che la poetessa ha subito. (..”/Le lettere che mi scrivi,/ giungono a me sempre troppo tardi,/ e quando ti chiedo: “Perché non torni?”/ “Continua ad aspettarmi”mi rispondi./ E quel tuo strano potere/ è svanito con te,/ quando mi dicesti: “Non venire con me”?/ Sto immaginando quanto calore/ potrebbe emanare il nostro amore/ ed ogni minuto che passa/ penso a te e…basta!/ I miei occhi lacrimano,/ quelle mani ancora cercano:/ ho appoggiato sulle mie labbra la tua fotografia/ ho guardato per ore la tua via…” -Aspettando il tuo ritorno). Non a caso al centro della raccolta è posta la poesia 16 Agosto 2003,: qui lo stile volge verso una perentorietà che si fa lapidaria, al punto che l’incipit è quasi un epitaffio, nelle ripetizioni anaforiche e nella rigidità icastica del costrutto. (“Fatato quell’istante,/crudele quel momento, /meschino quel giorno /in cui ogni cosa sarà dimenticata./ Tutto cesserà di sussistere/ e nulla smetterà di svanire”). La folle disperazione s’attenua altrove nell’inconscio approdo e ritorno al triangolo originale padre-madre-io, per diventare preghiera di unione e anelito di ricongiunzione (“Oh, Padre Mio, di grazia, l’Agnello/ Immolato è questo cigno quasi abbattuto!/La polvere è il sapore della schiavitù,/ Il ferro il tocco della prigionia,/ quest’amara cantilena il marchio dell’esilio./ Ch’io possa almeno dirle addio/ E ricevere dalle sue labbra un saluto/ Che né piaghe, né delirio potranno/ più estinguere! Perché nelle sue mani/Fin da ora consegno il mio spirito/ Ed emetto il mio flebile grido.”-Saluto Perpetuo). L’io poetico confessa “come il cuore reagisce al dolore”, come il dolore diviene folle disperazione:

Col cuore inzuppato d’acqua e

la lingua intrisa di sangue:

“Mamma…”, nient’altro.

Non sarai da me maledetto:

il tuo stesso misfatto punirà

quel crimine incarnito nei solchi del male.

Non sepolto, ma estirpato,

spurio rampollo del tempo,

non vi sarà per te rifugio alcuno,

nessuno luogo della memoria vorrà trattenerti

e la storia schiaccerà il tuo supplizio.

 

Ma l’Amore naufraga più spesso in infantile tenerezza (“Sento la tua mancanza,/quale celata sofferenza!/ Tutte la fiabe hanno lieto fine,/ ma il nostro amore non ha confine:/ rileggo tutto e forse aggiungerò qualcos’altro,/ perché come vedi sul mio foglio c’è ancora spazio,/ oppure ti dirò solamente/ che non ho mai pianto inutilmente/ Ad ogni rumore mi guardo intorno,/ ancora aspetto il tuo ritorno,/ nel frattempo mi addormento,/ nel tuo ricordo m’incanto/ e pian piano svanisce la sua magia in un pianto/Vicino all’ultimo rigo/ si è spento un altro sorriso”- Aspettando il tuo ritorno”) che si discioglie in effusione di lacrime (“Se le tue lacrime riescono a toccare/l’assenza di un bagliore sperato,/ fa che non rimangano soltanto tue…/se le tue lacrime t’appartengono,/ se davvero sono tue, donale a me…”- L’umido dono).. L’Amore è dunque metafisica d’esistenza:  rivela il bisogno intimo di significato della poetessa e la sua epistemologica eziologia del dolore (Il miglior finale).  La poetessa non riesce a vivere la solitudine, poiché ciò significherebbe rompere la sua dipendenza affettiva uterina: dunque il  trauma viene traslato nel microcosmo poetico che si frantuma in una miriade di amori-meteoriti, così da divenire un dedalo labirintico, un vorticoso meandro di tensioni, pulsioni e emozioni. Di qui dalla nebulosa della memoria si dipana l’inconscio poetico, che si confronta per specchiarsi con le eroine classiche d’amore: da Didone (Didone ha accolto/lo straniero giunto da Troia./Avverto dentro di me/come una fragile anfora/ da vuotare e che/ invece lascio colmare…- Effetti di un amore), ad Andromaca, Psiche, Juliet e Penelope. Il mito scende dall’Olimpo e approda nella quotidianità: l’io poetico sa interloquire e disegnare idee e meditazioni con le muse, gli elfi e tutto l’immaginario eroico del passato ( “A cosa pensi mentre canti,/ Bella Nausica? Forse che il tuo nome/è l’alloro della musica?/ Al dividersi delle labbra tue/ Il cielo dischiuda gli occhi suoi/ E invidi le tue stagioni l’usignolo…/E’ matita il tuo fiato / Che disegna sul pentagramma/ d’aria, un canto che in cuor/ Mi fa eco. Lì è la mia cetra,/ Il liuto che fai vibrare,/ Le corde che solo tu sai pizzicare!/ Assorta io ti guardo,/ Se so farlo, e mi fingo anch’io/ In quel pensier ove per poco /Il cuor non si spaura…// Corri agile, voli libera,/ Dove il tuo piede si posa/ è Primavera, ma bada Proserpina/ ch’io verrò a rapirti!/ Due mondi non possono fare/ A meno di te ora, e ad entrambi/ Dovrai perciò concederti…//Io ti aspetto, solo per vederti,/ Per respirare il tuo canto/ E ascoltare il tuo respiro…/Attendo te…vieni per musica!”. Per Musica). La poetessa è consapevole di essere una eroina d’altri tempi: è una Didone abbandonata e innamorata. 

E tutta l’opera è un dialogo-soliloquio melico, in cui la poetessa offre un estremo tentativo di resistere a se stessa, di opporsi ai moti del cuore nefasti. Questa raccolta sembra così il diario intimo di una Didone dei nostri tempi, che lascia trasparire la propria anima più femminile, i sentimenti e supplici dell'amore, i desideri più segreti della sensualità. Ma nell’identificazione l’oggetto e il soggetto d’amore spesso mutano: questo grado zero della scrittura si fissa nella memoria e crea il mito personale della poetessa che vede nell’arte non l’espressione diretta del ricordo, ma un’autoanalisi e un esame in cui l’io orfico torna ai traumi originari e ha la funzione di sintesi fra coscienza e inconscio.

L’Amore si trasforma altrove in rituale ossessivo: la poetessa, pur sapendo amare in senso autentico in quanto è capace di dare, si annulla completamente proiettandosi negli altri e questo evidenzia che il suo amore la soffoca, la distrugge e la schiaccia (“Sento dentro di me/come un vigoroso roveto/da sradicare e che invece lascio diramare”- Effetti di un amore). L’io poetico spesso non è capace di sostenere e sopportare il senso di colpa che lo assale, quando prova ad amare se stesso, quindi tende più spesso a spostarsi e proiettarsi sull'Altro (“ Ho fiducia di essere sole/e tu per istinto del destino/hai scelto di essere ghiaccio./Dimmi quale seme in terra fertile/non germoglierebbe se giorno per giorno/gli giungesse acqua vivente!” - Il miglior finale).

Quando, per sfuggire alla solitudine, la poetessa passa da un rapporto affettivo parentale ad una figura sostitutiva di esso, non vive un rapporto di amore, ma soltanto una sostituzione di un rapporto di affetto, che non risolve il problema della solitudine (“Fuggo le scelte, copro le identità, /dimentico di chieder consiglio:/vivo solamente!/E sento che adesso riesco ad amarti,/senza rancori, senza rimpianti,/riesco a ricordarti,/senza dolore, senza rumore./Anche se per te fra un po’ non ci sarò,/in me finalmente tu puoi essere”. –Finalmente puoi essere): ne nascono figure mitiche o proiezioni sostitutive, come la Euterpe, musa della poesia lirica e della musica, che diviene destinataria di alcune composizioni (Questo innatural amore; Figura di madre; Tu sei me; Morire per amore; L'angelo geloso; Quanto amar si possa) della nostra Didone lucana, ove odi et amo  si alternano nella sinfonia del verso (..”Ti amo,/ ma il tuo cuore mi confida/ che non avrà pace/ udendo il mio gemere…/Ti odio,/ ma i miei occhi non possono/ mancare a quell’inatteso/ appuntamento col tuo sguardo…”- Tu sei me).

L’Amore è dunque tematica monocorde, poiché irrisoluto è il senso di solitudine. La poetessa non teme le ripetizioni: si potrebbe dire che Aspettando il tuo ritorno è la ripetizione variata ad infinitum di una medesima poesia. Ma proprio quella apparente monotonia è frutto di un perpetuo assillo d’anima, infinito scontro fra Eros e Thanatos: perché cambiare registro se la poesia scritta non ha esaurito il problema e non ha placato l’angoscia che l’aveva determinata? (“Non è tuttavia da codardi/provare ciò che ho vissuto./ Ho vissuto morte,/ma non ho ucciso vita! /Ho impedito vita,/ ma non ho permesso morte!/ Sotto la penna c’è ancora carta,/ in balia della mente queste dita…/Odio e amore reggevano con mani opposte/ il baldacchino di questo ricordo…/Ricordo che tu non mi hai chiesto,/ che tu non susciti,/ ricordo che non incarni./Ma non sarei folle/ se a tuo piacimento non ti concedessi,/ in nome di un’oscura legge metafisica,/di varcare i portali del mio pensiero”- Finalmente puoi essere).

Dal momento che quasi mai “un angolo di anima riesce a sfiorare un pezzo di cielo”, la poesia si carica di un’angoscia metafisica e metatemporale. La storia non ha valore, spodestata di ogni senso, poiché è solo mera illusione sui gradini dei secoli ( ..”offri cimeli e sostanze favolose”- Alla storia-).  Nella vita inestinguibile è il dolore per l’umanità intera e per la poetessa: Giovanna Didone è dunque “prigioniera del vortice eterno dell’infinito ritorno”, conscia che non vale la pena di attendere il nuovo giorno, poiché  i vespri della sera appaiono cupi e funerei...La sua anima immessa in questo suo corpo soffoca (“Se esiste un regno nell’alto dei cieli/ o negli abissi della terra/ a chi può interessare oramai?”- L’umido dono).. E quindi Aspettando il tuo ritorno è la raccolta dell’Amore materno, metafisico, sensuale, suggestivo e mitico, esaltato dalla capacità scritturale e visionaria della poetessa lucana, la cui potenza evocativa è la suggestione orfica di emozioni, che divengono misteriosa capacità di comunicazione e quasi medianica lettura dell’invisibile.

 

Prof. Massimiliano Badiali