CAPITOLO IV: LA RELIGIOSITA' DI KIERKEGAARD

Cristo: irruzione dell'Eterno nel tempo.

Per Kierkegaard la filosofia e il cristianesimo non si lasciano mai conciliare. Per mantenere la Redenzione, bisogna perciò che la filosofia sia cristiana. Il credente non può fare filosofia come se la Rivelazione non fosse avvenuta.

L'irruzione dell'eterno nel tempo si è avuta con Cristo. E per il cristiano questo è un fatto assoluto e in quanto tale non è da dimostrare perché è inconoscibile. La verità cristiana non è una verità da dimostrare: è invece una verità da testimoniare, reduplicando la Rivelazione nella propria vita. Tale reduplicazione deve essere totale perché Dio è negazione di ciò che va fino ad un certo punto. Kierkegaard infatti si oppone alla considerazione speculativa del cristianesimo cioè quella di giustificarlo, come fa Hegel, con la filosofia. Non bisogna giustificare, ma credere. E per credere non è necessario essere contemporanei a Gesù. La fede è un salto per chi è contemporaneo a Cristo e per chi non lo è. Per il filosofo nessuno può sostituirsi a Dio perché Lui ha avuto tanta misericordia fino a concedere la Grazia per mettersi con ogni singolo. Kierkegaard, in questo aspetto, non si allontana dal cattolicesimo vedendo in Cristo l'alfa e l'omega, il rivelatore del Padre: infatti "il sangue di Cristo, mentre rivela la grandezza dell'amore del Padre, manifesta come l'uomo sia prezioso agli occhi di Dio e come sia inestimabile il valore della sua vita". Il sangue di Cristo "è il sangue dell'aspersione che redime, purifica e salva, è il sangue del Mediatore della Nuova Alleanza, versato per molti in remissione dei peccati. Cristo fa "presso il Padre intercessione per i fratelli, è fonte di redenzione perfetta e dono di vita nuova". Kierkegaard ci dice che il cristianesimo non è una dottrina, ma un annuncio di esistenza.

 

 

L'esistenza di Dio.

Kierkegaard si chiede se sia conoscibile analogicamente Dio. L'incapacità di ogni intellettualismo, come quello greco, si ha nel contatto con l'incognito "la cui esistenza sfugge alla possibilità di una prova sia diretta, la quale supererebbe la portata stessa dell'intelligenza, sia indiretta: non potendosi tale esistenza dedurre dalla semplice analisi del concetto, a meno di presupporre in ogni caso tale esistenza come già data, il che implica una evidente petizione di principio". E' impossibile conoscere anche l'esistenza individuale perché vi è impossibilità "di stabilire fra causa ed effetto un rapporto assoluto come quello che è dato stabilire fra essenza ed esistenza nei confronti di Dio". Spinoza tese a sopprimere ogni distinzione fra essere reale ed ideale, poiché tendeva a dedurre razionalmente "l'esistenza di Dio dal semplice approfondimento di esso". La verità è che essentia involvit existentiam dipende non dalla soppressione di distinzioni fra realtà ed idealità, ma "dalla possibilità di inserzione dialettica del supremo valore dell'idealità nella realtà"; ne segue che l'unica prova possibile dell'esistenza di Dio è quella che si ha con la fede, abbandonando le prove, non cercando dimostrazioni razionali, perché nella fede sola c'è la riprova concreta dell'esistenza. L'uomo verso l'assoluto ha solo una possibilità di prova offerta all'intelligenza. La risposta alla conoscenza di Dio si trova in L'immutabilità di Dio, dove Kierkegaard testimonia la presenza dell'assoluto come attesa di gioia che presagisce la morte vicina, incontrandosi con Dio.

 

 

Le opere religiose.

Kierkegaard caratterizza le sue ultime opere per l'alto contenuto di religiosità. L'autore di esse è Anticlimacus che è scrittore edificante. In queste opere o discorsi edificanti si ha un avvicinamento al singolo perché la realtà religiosa è rivolta all'individuo. Il filosofo sente il bisogno di far rapportare l'uomo con l'assoluto.

 

a) L'esercizio del cristianesimo.

L'opera è una delle ultime tappe dello sforzo prometeico del filosofo cioè quella di dimostrare che il cristianesimo è la verità che salva. Al centro ciò che domina l'opera è la figura "mite e forte di Cristo" (…) come consolazione e redenzione". L'opera si divide nell'invito a Cristo a richiamare gli uomini alla sua fede, vi si presentano molti personaggi (il pastore, il filosofo) che criticano o esaltano Cristo. La seconda parte dell'opera parla dello scandalo poiché Cristo è unione ipostatica, generato e non creato, è l'uomo-Dio che prende su di sé il peccato di tutti. C'è inoltre il problema della contemporaneità in cui il filosofo parla del tradimento di Cristo nel pensiero moderno con Hegel, Strauss, Feuerbach, Marx. La terza parte è un confronto con i testi sacri in cui si vuol dimostrare "la trascendenza della redenzione in Cristo, il suo giudizio di condanna senza appello della storia universale, il trionfo degli umili che l'hanno ascoltato, cercato e seguito nell'umiliazione e nel dolore. E' la nuova soteriologia esistenziale, il contrasto fra il sofista e il credente, soprattutto la tensione fra la chiesa trionfante della cristianità stabilita cioè mondanizzata e la Chiesa militante dei sofferenti e dei perseguitati". Ci sono nell'opera spunti dottrinali profondi con una meditazione cristiana edificante che lo avvicina al misticismo medioevale. Kierkegaard sente il fallimento del cristianesimo nel mondo moderno. Nell'opera ribadisce il concetto di singolo come "soggetto spirituale sussistente". Ne segue che Cornelio Fabro ritiene che la cristologia kirkegaardiana sia ortodossa, "espressamente ispirata alla teologia atanasiana e nicena dell'unione ipostatica (due nature in Cristo in una persona divina quella del Verbo)". Kierkegaard sente perciò la distanza fra uomo e Dio, che è mediata dall'abbassamento di Cristo che è diventato uomo. Rispetto ad Hegel, la morte di Cristo nella croce più che vergogna, è sollevamento dell'uomo: il negativo non è solo un momento del processo dialettico perché Cristo "ha sofferto per l'uomo e è diventato il Modello per l'uomo in quanto il cristiano che cammina nel tempo, deve ripetere nel tempo l'itinerario di Cristo cioè in abbassamento e sofferenza". Per il cristiano la sofferenza non è un momento dialettico da superarsi, ma un momento che dura fino alla fine dei tempi. Rispetto ad Hegel non è la coscienza di unità ed identità del genere umano con Dio, ma con la partecipazione della persona alla sofferenza di Cristo, tramite tale imitazione, l'uomo rivive la vita di Cristo come modello in sé.

 

b) I discorsi cristiani.

I discorsi cristiani rientrano in questo desiderio di coinvolgerci nella eternità di Cristo che è attuale in ogni tempo.

Giovanni Hohlenberg paragona I discorsi cristiani ad una sinfonia in più tempi di cui ciascuno ha un motivo particolare. Il filosofo tratta qui le inquietudini dei pagani, il valore della natura che compie la volontà di Dio, ma che è inferiore all'uomo, la povertà e la ricchezza. Si tratta inoltre il tema della sofferenza inseparabili dall'esistenza cristiana: la sofferenza è segno della disobbedienza di Adamo liberata da Cristo fattosi uomo, che diviene segno di speranza e di salvezza. "Nell'opera il vigore polemico e l'ironia implacabile, pur nobilitate da fervido misticismo, dall'ansia di Dio e dal desiderio di una religiosità pura e totale si mettono in urto con i fedeli e con la chiesa protestante". I rapporti con la chiesa stabilita di Danimarca peggiorarono e dopo la morte di Minster quando il teologo Martensen elogiò l'uomo come teologo, Kierkegaard si inferocì contro essa nelle sue ultime opere.

 

c) Il Vangelo delle sofferenze.

Il Vangelo delle sofferenze ispirato ai testi sacri dedotti dalla storia della passione di Cristo, parlano della sofferenza come espressione qualitativa per l'eterogeneità di questo mondo. Per il filosofo dove non c'è sofferenza, non c'è ricerca di Dio. Nel Vecchio Testamento la sofferenza era data da Dio per un periodo circoscritto e poi l'uomo otteneva la soddisfazione e il perdono (Dio mette Abramo alla prova di sacrificare Isacco). La sofferenza perciò è continua perché è anelito continuo a Dio.

 

d) Per l'esame di se stessi.

L'opera composta da tre discorsi ha la finalità di avvicinare il singolo a Dio. Il primo discorso è dedicato allo specchio della Parola e parte dalla lettera di San Giacomo respinta da Lutero, e ne segue la critica di Kierkegaard a Lutero per la sola fides lasciando in ombra l'imitazione di Cristo. La seconda parte parla di Cristo come modello e si svolge nell'evocazione della sua sofferenza nella Passione e morte con l'Ascensione. Il terzo discorso parla e commenta la Pentecoste e diviene una rappresentazione del vero cristianesimo che gli apostoli hanno avuto contro le tendenze perverse contro la fede.

 

e) Il diario.

Tra gli scritti Il diario, a cui i critici hanno guardato con crescente attenzione, esprime la vita interiore del filosofo, tanto che alcune pagine possono farci comprendere l'enigma kierkegaardiano. Egli iniziò a scriverlo a venti anni e lo interruppe due mesi prima di morire. "Al diario o journal, Kierkegaard ha dedicato le cure di tutta la vita: è stato la sua creatura prediletta a cui non ha mai permesso di uscire di casa; ha voluto tenerlo sempre presso di sé (…) per formarselo a sua immagine e somiglianza". Lo scritto ci svela la genesi delle opere del filosofo, le sue reazioni alle recensioni e le notizie biografiche. "Nel diario Kierkegaard è costretto a levarsi la maschera degli pseudonimi". Kierkegaard qui si oppone ai politici, ai professori del cristianesimo, ai pastori luterani e a quei cristiani che erano per lui divenuti i becchini del cristianesimo.

Centrale è in Il diario l'idea che il cristianesimo non è una dottrina, ma una fede e una forma determinata di esistenza. Per il filosofo i pastori protestanti hanno demoralizzato la cristianità come i dotti professori: infatti se Cristo tornasse sulla terra sarebbe ucciso di nuovo accusato di aver predicato non il cristianesimo "ma un'esagerazione e una caricatura folle, empia, blasfema, inumana, di quella mite dottrina che è il cristianesimo, il vero cristianesimo che si trova nella cristianità e il cui fondatore fu Gesù Cristo".

Il cristianesimo è l'assoluto, ma il cristiano ama vivere la relatività; il cristianesimo parla sempre di eternità mentre la cristianità vive nel presente. Il cristianesimo si pone nella dimensione dell'infinito, ma il cristiano ama immergersi nella mondanità che lo rende miope. Il vero cristianesimo è scandalo e paradosso, mentre la cristianità con l'aiuto dei pastori, dei professori e dei filosofi l'ha reso un'insieme di dottrine molto ragionevoli. Ne segue che Dio è rappresentato come il superlativo dell'essere uomo.