TESINA INTERDISCIPLINARE

PROF. MASSIMILIANO BADIALI

 

IL SOCIALISMO: UTOPIA E CIVILTA'

PRESENTAZIONE

Il Socialismo ha il merito di aver fatto conoscere le vere esigenze sociali dell’uomo comune, povero che fosse operaio o contadino. Dalla Rivoluzione Francese del 1789 attraverso la Comune di Parigi il socialismo si è affermato. Marx tramite le sue idee politiche e sociali sarà interpretato da Lenin e le sue teorie applicate alla storia. Ma dopo circa 80 anni, dopo la caduta del muro di Berlino si scopre che il sistema comunista è fallito e che la sua ideologia è utopia, poiché l’uomo è libero di possedere proprietà. Un cammino di civiltà allora che ha finito per diventare utopia e poi violenza di stato per le persecuzioni politiche e l’impossibilità di libertà civile. Il comunismo si è sporcato così di eccidi, perdendo del tutto il suo carattere di uguaglianza, ma sostituendo ai borghesi i capi di uno statalismo fortissimo.

 

 

 

GEOGRAFIA:

La Russia economica oggi

STORIA:

La rivoluzione russa

Il plusvalore nella società

Cenni storici fra 700 e 800: la Rivoluzione Francese

La Comune di Parigi

La nascita del Socialismo in Italia

DIRITTO E SCIENZE DELLE FINANZE:

Marx: il materialismo storico

 La teoria quantitativa della moneta

INGLESE

-Wall Street e il New Deal

ECONOMIA AZIENDALE

Il mercato chiuso

L’inflazione e la disoccupazione

ITALIANO

Il Naturalismo e Zola

Il Verismo e Verga

 

 

 

Il sistema socialista ha avuto una forte diffusione nell’est europeo ( ex URSS, Polonia , ecc.) fino alla fine degli anni ’80 , ,mentre ‘e tuttora presente in Vietnam , a Cuba ed in altri Paesi . Gli aspetti qualificanti di un sistema socialista sono i seguenti :un fortissimo intervento dello Stato in campo economico , in quanto i mezzi di produzione sono esclusivamente di proprieta’ dello Stato ed e’ vietata la libera iniziativa economica privata, la produzione e la gestione dell’economia viene pianificata sulla base di determinati obbiettivi da raggiungere e non sulla base delle richieste del mercato , i prezzi dei beni i e i salari sono stabiliti dallo Stato . Gli ultimi dieci anni di questo secondo millennio di storia hanno sconvolto l’ordine stabilito dalle due superpotenze negli ultimi cinquant’anni. Nel 1989, precipita la crisi che aveva coinvolto le economie socialiste negli anni ‘80 e cadono tutti i regimi dell’Europa centro-orientale. Nel novembre dello stesso anno il crollo del muro di Berlino segna la fine di un’epoca. La Germania riunificata al centro dello spazio europeo prospetta nuovi scenari per il futuro di questo continente. Appare tuttavia netta la differenza che caratterizza tre diverse Europe. Generalizzando potremmo affermare che: gli stati occidentali, anche se con mille difficoltà, stanno arrivando a definire la politica comunitaria dell’Unione Europea che presuppone un alto livello di sviluppo economico; la Russia e la CSI (Comuità degli Stati Indipendenti ovvero l’ex URSS) appaiono in condizioni economiche e sociali molto arretrate rispetto all’Unione Europea, mentre l’Europa "di mezzo" o "ex-comunista", formata dai paesi che un tempo si chiamavano "satelliti" dell’URSS, si trova in una posizione ambigua e polivalente: da una parte è fortemente sentita l’esigenza di avvicinarsi all’Europa ricca occidentale, dall’altra il brusco passaggio all’economia di mercato ha colto impreparati i governi post-comunisti di molti di questi stati che non sono riusciti a risolvere le gravi contraddizioni ancora esistenti. Oltre all’aspetto economico, il crollo dell’URSS ha determinato gravi conflitti etnici che imperversano tanto all’interno che all’esterno dell’ex unione di stati socialisti. La Russia è divisa fra Asia (la parte maggiore) ed Europa.

 

 

La Superficie della Federazione Russa, trasformatasi dopo essere stata URSS e aver perso territori come l’Ucraina e la Bielorussia la lettonia la Lituania e l’Estonia, è di 17.079.792 Km² (12.841.000 Km² parte asiatica, 4.238.792 Km² parte europea) Gli Abitanti sono 147.987.101 La Capitale è Mosca (9.270.000 ab.). Altre città sono  S. Pietroburgo 5.130.000 ab., Samara 1.500.000 ab., Novosibirsk 1.476.000 ab., Nizni Novgorod 1.400.000 ab., Jekaterinburg 1.315.000 ab., Omsk 1.122.000 ab., Caricyn 1.100.000 ab., Celjabinsk 1.100.000 ab., Kazan 1.100.000 ab., Perm 1.000.000 ab., Rostov-na-Donu 1.000.000 ab., Ufa 1.000.000 ab. I Gruppi etnici sono  Russi 80%, Tartari 4%, Ucraini 3%, Ciavasci 1%. I Paesi confinanti sono  Lituania a NORD e Polonia a SUD (Kaliningrad), Finlandia, Estonia, Lettonia, Bielorussia ad OVEST, Ucraina a SUD-OVEST, Georgia, Azerbaigian, Kazakistan, Mongolia, Cina e Corea del Nord a SUD. Il Monte principale è Elbrus 5642 m. I Fiumi principali sono : Amur 4416 Km, Lena 4400 Km, Irtys 4400 Km, Jenisej 4092 Km, Ob 3680 Km, Volga 3530 Km. La Temperatura media a Mosca (in °C): nei mesi più freddi – 11 nei mesi più caldi + 19,8'. Laghi principali: Mar Caspio 371.000 Km² (comprese parti azera, iraniana, turkmena e kazaka), Lago Bajkal 31.500 Km², Lago Ladoga 18.400 Km², Lago Onega 9610 Km², Bacino di Bratsk 5500 Km², Bacino di Samara 5000 Km², Bacino di Rybinsk 4550 Km², Ozero Tajmyr 4500 Km². Isole principali: Sahalin 76.400 Km², Novaja Zemlja settentrionale 48.900 Km², Novaja Zemlja meridionale 33.275 Km², Kotelny 12.019 Km²
Nell'industria, su quindici settori di base. nove hanno avuto una crescita positiva nel periodo 1997-98, mantenendo quasi tutti una buona dinamica. Questi settori sono medicina e farmaceutica; poligrafia; microbiologia-biotecnologia; metallurgia non ferrosa; metalmeccanica; chimica e petrolchimica, legno, carta cellulosa; metallurgia ferrosa: combustibili. L'industria delle macchine per la produzione dell'energia e' un settore che si sta sviluppando rapidamente. Più di venti aziende leader nel settore si sono uniti in holding per la produzione dei macchinari energetici . La produzione agricola nel 1997 ha registrato un incremento dell'1 % rispetto all'anno precedente grazie ad un raccolto di cereali ufficialmente dichiarato a 90,2 milioni di tonnellate nette. In rapporto al 1997 essa é cresciuta del 4 % rispetto all 1996. La ripresa della produzione agricola lascia ben sperare che in un prossimo futuro la Russia possa -ricominciare ad esportare grano. Rimane tuttavia l'incognita delle possibili perdite per i ricorrenti problemi di stoccaggio e di conservazione del raccolto che negli anni scorsi sono costati fino al 30% del totale. La privatizzazione delle imprese ha costituito uno dei fattori maggiormente positivi sia per il bilancio pubblico che per il processo di ristrutturazione del sistema industriale. Si consideri che nel 1995 sono state privatizzate 10.000 imprese, nel 1996 la metà, cioè 5 000 e nel 1997 il numero é sceso a 3 1 00, ma gli introiti sono aumentati perché sono stati posti in palio i pacchetti azionari di alcune tra le maggiori società russe (Sviatínvest, Norilskíj níckel etc.) Nel 1998 in Russia era stato privatizzato il 60,2 % del numero totale di imprese. Secondo i dati del Goscomstat nel 1997 il totale degli investimenti esteri in Russia é stato pari a 10,5 miliardi di dollari, quasi 4 miliardi in più rispetto all'anno precedente risultando ancora modesto l'apporto del capitale estero allo sviluppo della struttura produttiva russa. All'inizio del 1998 risultavano operanti sul territorio della Federazione Russa poco più di 16.000 imprese miste a partecipazione straniera. Di queste, 768, il 4% del totale, erano imprese miste italo-russe, concentrate soprattutto nella città di Mosca ed in misura minore, nella città di San Pietroburgo, Regione di Rostov, Regione di Volgograd. I principali partner commerciali sono : la Germania con volume di interscambio pari ad oltre 13 miliardi di dollari, U.S.A. (8,5 miliardi di dollari), Italia (6,2 miliardi) , Olanda (5,7), Cina, Finlandia, Gran Bretagna, Svizzera, Giappone e Irlanda. A creare il presupposto del socialismo fu il
pensiero di Karl Marx[1], che condizionerà tutto l’800[2]. Secondo Marx è  la condizione sociale a determinare la coscienza. Non è la religione che crea l’uomo, ma l’uomo che crea la religione (che è oppio dei popoli), così non la costituzione crea il popolo, ma il popolo la costituzione. Marx è critico verso gli economisti classici (Smith e Ricardo), secondo cui il valore deriva dal lavoro. Secondo Marx il valore di ogni merce è determinato dalla quantità di lavoro necessario: alla massima produzione di ricchezza corrisponde l’impoverimento massimo dell’operaio. Il capitale è “la proprietà dei prodotti del lavoro altrui”, è il lavoro espropriato. Contro il socialismo utopistico (Proudhon, Babeuf), che sogna una società borghese senza sfruttamento, Marx oppone la lotta di classe. Solo tramite l’abolizione della società capitalista sarà possibile porre fine all’alienazione. Nella società presente il lavoro, l'attività pratica dell'uomo, è attività estraniata, alienata. Tale alienazione è, in primo luogo, considerata nel rapporto del lavoratore col prodotto del suo lavoro. Il lavoratore, il proletario (cioè colui che, mancando della proprietà dei mezzi di produzione, è costretto a vendere il proprio lavoro come una merce) produce con la sua attività degli oggetti che non gli appartengono; non solo, ma che gli si contrappongono come una potenza ostile, cui è asservito.­ In secondo luogo, l'alienazione viene considerata nel rapporto dei lavoratore con la sua stessa attività produttiva. L'alienazione, infine, si verifica nel rapporto dell'uomo con l'altro uomo, poiché il prodotto del lavoro e la stessa attività produttiva appartengono, non ad una entità misteriosa, ma ad un altro uomo, che si serve del lavoro altrui. La concezione del materialismo storico, fulcro ideologico del pensiero di Marx, compare esplicitamente ne «L'ideologia tedesca», in polemica con i rappresentanti della Sinistra hegeliana, rimasti nell'ambito dell'idealismo. Questi concepivano le relazioni tra gli uomini come un prodotto della loro coscienza e presumevano che, modificando le idee della coscienza, si sarebbe modificata anche la vita reale degli uomini nella società. Per Marx si tratta non di scendere dal cielo alla terra, ma di salire dalla terra al cielo. Si tratta, cioè, di partire dalla vita reale degli uomini, che si esprime in primo luogo nell’attività con cui essi producono la loro vita materiale, per spiegare le forme della loro coscienza. La prima condizione di ogni esistenza, e quindi di ogni storia umana, è che gli uomini soddisfino anzitutto i bisogni elementari del cibo, dell'abitazione, del vestire, ecc. Per soddisfare questi bisogni, poiché la natura non offre gratuitamente i beni necessari, occorre mettere in opera delle «Forze di produzione». Queste, che si evolvono continuamente, vanno dal rozzo utensile dell’età primitiva, al telaio a mano, alla macchina industriale dei tempi moderni, insieme alle tecniche ed abilità umane secondo cui tali strumenti si adoperano. Le forze di produzione sono solo un aspetto del «mondo di produzione», che è proprio di una certa fase del divenire storico. L'altro aspetto è rappresentato dai “rapporti di produzione”, cioè da quei determinati rapporti in cui gli uomini entrano reciprocamente nel corso dell'attività produttiva, che è sempre attività sociale. Anche essi sono soggetti da modificarsi ed evolversi in relazione all'evolversi delle forze di produzione.  Ad un determinato stadio di sviluppo delle forze di produzione corrispondono determinati rapporti di produzione. L'insieme delle forze di produzione e dei rapporti di produzione corrispondenti costituisce la struttura della società, cioè la base reale su cui si elevano, e da cui sono condizionate, tutte le altre forme della vita sociale (cosi il regime politico come il diritto, come le forme ideologiche quali le opinioni morali, le credenze religiose, le idee filosofiche, ecc.), le quali sono dette, perciò, sovrastrutture. Il fattore economico non è l'unico determinante, perché anche le sovrastrutture, in un complesso gioco di azione e reazione, esercitano la loro influenza sul corso storico. Solo che, nell'intreccio di tutti i fattori possibili, il movimento economico è quello che, in ultima istanza, appare come l'elemento necessario, che può essere fatto oggetto di scienza, in mezzo a tante cose accidentali. In brevis, secondo Marx, «la storia di ogni società esistita finora, é storia di lotte di classe». In pratica la ricchezza del borghese si basa sul lavoro del proletario. Più precisamente, ciò che il lavoratore vende é la sua forza‑lavoro o capacità lavorativa, che egli mette a disposizione del capitalista per un certo tempo. Ora, come per ogni altra merce, il valore della forza‑lavoro è determinato dalla quantità di lavoro occorrente per la sua produzione. Per mantenersi in vita e recuperare le energie consumate, nonché per soddisfare i bisogni della sua famiglia, il lavoratore ha bisogno di un certo numero di oggetti. In questi è incorporata una certa quantità di lavoro, che ne determina il valore. A questo valore corrisponde il salario, che è il prezzo della forza‑lavoro, ovvero il valore di essa espresso in denaro. Un conto é il valore della forza‑lavoro e un conto è l'uso che di questa forza‑lavoro viene fatto dal capitalista. Se la giornata lavorativa durasse per il tempo necessario a produrre il valore per il quale è stata acquistata la forza-lavoro e non più, il lavoratore sarebbe interamente remunerato dal salario, ma il capitalista non trarrebbe alcun profitto. In realtà, il capitalista usa della forza‑lavoro al di là di quel limite, per un certo altro tempo, durante il quale il lavoratore avrà prodotto altro valore, per il quale però non viene remunerato. Questo valore prodotto in più si chiama plusvalore (o salario non pagato). Per Marx, come la borghesia è la contraddizione interna del feudalesimo, così il proletariato è la contraddizione interna della borghesia. Il feudalesimo ha prodotto la borghesia, la borghesia per esistere e svilupparsi deve produrre nel suo seno chi la porterà alla morte cioè il proletariato, che è la sua antitesi. Lungo la via crucis della dialettica, il proletariato porta sulle sue spalle la croce dell’umanità intera. L’alba della rivoluzione è un giorno inevitabile, in cui trionferà il proletariato[3]. La rivoluzione sarà il mezzo e il passaggio ad un società privata senza classi, senza divisione del lavoro, e senza stato. La Rivoluzione Russa fu l’affermazione delle ideologie di Mark contro un sistema autocratico, come quello zarista. Essa è iniziata nel marzo del 1917 quando la lotta tra la classe operaia e la borghesia di Stato zarista volgeva ormai al termine con la irrimediabile sconfitta di quest’ultima. Il crollo della borghesia di Stato zarista ha comportato il passaggio in mano agli operai che vi lavoravano di tutte quelle officine che fino a quel momento erano state di sua esclusiva proprietà. Il passaggio della gestione di queste officine dalla borghesia di Stato alla classe operaia, a dir la verità, è avvenuta in maniera alquanto rapida ed indolore per via della fuga di tutto il personale amministrativo messo dalla borghesia di Stato a capo di queste aziende. La stessa situazione si è ben presto creata anche in molte industrie private – si pensi alla fabbrica di tessuti di Novgorod i cui padroni, in attesa di tempi "migliori", avevano deciso di sospendere i lavori delle aziende: anche queste imprese sono passate in autogestione. Contemporaneamente, a livello politico, si è creata la formazione di un doppio potere: da una parte hanno acquisito importanza le "nuove" istituzioni poliarchiche parlamentari e, quindi, la borghesia politica organica, costituita dall’insieme delle burocrazie politiche dei partiti russi, e dall’altra un sistema di Consigli Politici Operai (i soviet) che conteneva al suo interno allo stesso tempo i germi di una nuova forma di democrazia, la democrazia socialista d’autogoverno, e i germi di un nuovo tipo di regime poliarchico, la poliarchia "consiliare" (Soviet = Consiglio), dovuti questi ultimi alla forte influenza che le burocrazie politiche dei partiti "operai" avevano sui membri di tali consigli. Nel luglio del 1917, la burocrazia politica bolscevica, approfittando del malcontento crescente tra gli operai ed i soldati, ha organizzato una dimostrazione armata a Pietroburgo che è stata immediatamente repressa. Il progressivo indebolimento della borghesia politica organica ha indotto settori della borghesia di Stato militare, guidati da Kornilov, a tentare nel mese di agosto un colpo di Stato finalizzato ad una "normalizzazione" in senso autoritario del sistema e all’eliminazione dei Soviet e dei Consigli di fabbrica. Il colpo di Stato è stato, però, sconfitto da una rivolta di operai e di soldati a Pietrogrado. A settembre la burocrazia politica bolscevica metteva le mani sulla maggior parte dei Soviet. Questa situazione ha indotto la burocrazia politica bolscevica a rivendicare il passaggio di tutti i poteri ai Soviet, un passaggio che secondo i suoi piani doveva avvenire in maniera violenta. La burocrazia politica bolscevica nel corso del mese di ottobre ha organizzato il colpo di Stato, che è stato portato a compimento il 24-X-1917 da quella stessa guarnigione di soldati che lo aveva già tentato a luglio sostenuta dai marinai del Baltico della vicina base di Kronstadt e da alcune migliaia di operai organizzati in milizie dai bolscevichi. Alle 10 del mattino del 25-10-1917, Lenin poteva dichiarare decaduto il governo controllato dai menscevichi e proclamare il passaggio dei poteri al comitato militare-rivoluzionario. La sera del 25-X-1917 il colpo di Stato si è concluso con l’occupazione da parte dei militari e dei marinai del Palazzo d’Inverno, sede del governo provvisorio. Contemporaneamente si è riunito il II° Congresso dei Soviet a cui Lunacarskj ha consegnato formalmente il potere. Questi Soviet, però, non erano più gli stessi organismi sorti dalla Rivoluzione di Febbraio: si trattava ormai di istituzioni largamente politicizzate e sottoposte al controllo della borghesia politica bolscevica i cui quadri in larga misura si fondevano con esse. Il II° Congresso dei Soviet ha nominato una nuova oligarchia tecnocratica di governo guidata da uno dei promotori del colpo di Stato, V. I. Lenin. La nuova oligarchia tecnocratica di governo ha però confermato per il 12/11/1917 le elezioni per l’Assemblea Costituente, che, contrariamente alle aspettative, per la borghesia politica bolscevica si sono rivelate un autentico disastro. E’, quindi, evidente, che nelle settimane immediatamente successive al 24/10/1917, la burocrazia politica bolscevica ha incontrato tutta una serie di pericolosissimi ostacoli lungo la strada che l’avrebbe portata a diventare la classe sociale dominante in Russia. E’ in questo contesto di profonda instabilità, che, in vista delle elezioni dell’Assemblea Costituente, la borghesia politica bolscevica ha tentato la mossa demagogica – perché non realmente voluta come dimostreranno gli avvenimenti successivi – della pubblicazione, in data 3/11/17 di una prima bozza del decreto sul controllo operaio. Questo documento prevedeva l’assegnazione di grandissimi poteri ai consigli di fabbrica, le cui decisioni avrebbero avuto valore di legge nei confronti dei proprietari delle aziende. Il carattere demagogico della pubblicazione di questa bozza di decreto è stato dimostrato dal fatto che appena due giorni dopo le elezioni dell’Assemblea Costituente, il 14/11/1917, è stato emanato un decreto sul controllo operaio, sostanzialmente diverso da quello pubblicato il 3/11/1917, che riduceva drasticamente i poteri da conferire ai consigli di fabbrica. Non solo, ma questi decreti possedevano anche una forte carica controrivoluzionaria perché affermavano il diritto dei collettivi di lavoro a controllare la gestione delle loro aziende, ma non a gestire le imprese in questione, cosa che in un numero rilevante di aziende era già una realtà. Questo fatto nei mesi successivi permetterà alla borghesia politica di scatenare una battaglia a tutto campo contro quei consigli di fabbrica che prima, durante e dopo la "Rivoluzione" di Ottobre si erano assunti la gestione delle aziende in cui erano stati istituiti. In ogni caso, il primo vero attacco scagliato dalla borghesia politica bolscevica al controllo operaio si è avuto solo al 1° Congresso Sindacale quando i consigli di fabbrica sono stati messi sotto il controllo della borghesia burocratica sindacale; la seconda mossa della borghesia politica è stato il varo di un vasto piano di nazionalizzazioni: infatti, secondo il decreto del 3/3/1918 i rappresentanti degli operai nel consiglio economico d’amministrazione delle aziende di Stato dovevano sempre e comunque essere meno della metà dei membri del consiglio e con decreto del 30/8/1918 venivano fortemente ridimensionati i poteri dei consigli di fabbrica sempre delle aziende di Stato. L’attacco ai consigli di fabbrica si è concluso con un decreto del febbraio 1920 pubblicato dalla Izvestia, organo ufficiale del Congresso dei Soviet. In tale decreto si affermava, infatti, che: "…i consigli di fabbrica ed i comitati operai, costituiti con lo scopo di mantenere la disciplina nei centri industriali, erano diventati, contrariamente all’intenzione, sorgenti di danno all’industria nazionale ed avevano demoralizzato le masse operaie spingendole alla distruzione degli utensili delle fabbriche" – si noti il disprezzo tipicamente borghese verso gli operai contenuto in queste parole – "In conseguenza, i consigli di fabbrica e i prenominati consigli operai sono dichiarati sciolti." In questo momento si è concluso il processo, iniziato sin dalla primavera del 1918, che ha portato al passaggio al modo di produzione capitalistico di Stato e alla formazione di una nuova classe sociale dominante, la borghesia burocratica del "Partito Comunista". Anche gli Stati Uniti sembrarono diventare tutto d’un tratto un colosso dai piedi d’argilla, poiché la regola per mantenere il benessere economico era che questo non poteva che aumentare: per continuare ad esistere doveva espandersi in continuazione, secondo lo schema tipico della società consumistica, basata sul circolo vizioso produrre-consumare-produrre di più-consumare di più; con la continua necessità di creare nuovi bisogni ed aspettative nel mercato. Giovedì 24 ottobre 1929, il mondo si svegliò dalla favola bella che lo aveva illuso: l’idea che la ricchezza potesse crescere all’infinito evaporò all’apertura della borsa di Wall Street, quel giovedì d’autunno, che sarebbe passato alla storia come il "giovedì nero". Nei cinque anni che precedettero il disastro il valore dei titoli di borsa americani si era quadruplicato, infondendo negli speculatori un’incrollabile certezza nella solidità del sistema: questo innescò, coll’andare del tempo, una sconsiderata corsa al rialzo, dovuta alle speculazioni sfrenate, portando i titoli ad una sopravvalutazione critica; quando in qualcuno la fiducia venne meno, il mercato si sgonfiò come un palloncino. Mi spiego: la differenza tra il valore reale di un’azienda (immobili, capitali, macchinari, fatturato eccetera) ed il suo valore azionario non può superare una certa forchetta; perché se la disparità è troppo forte, prima o poi si scapicolla giù. Oggi esistono dei meccanismi di ammortizzamento degli eccessivi rialzi e ribassi: nel 1929 no; perciò, la prima crepa che incrinò il monumento di fiducia cieca nel mercato che era Wall Street, fece crollare tutta l’impalcatura. Naturalmente, nel panico delle svendite forsennate, le azioni scesero di molto sotto quel valore reale delle imprese che, come abbiamo visto, è l’unico dato non virtuale in tutta la faccenda, mettendo in crisi l’intero sistema capitalistico. Già martedì 29 ottobre (il "martedì nero"), la borsa nuovayorkese aveva perso tutti i guadagni dell’intero anno. Ma la crisi non doveva interessare solo la borsa: la domanda di beni di consumo scemò rapidamente, le vendite calarono, la produzione risultò esorbitante rispetto ai consumi, e l’industria si inceppò; il capitalismo prima maniera mostrava tutti i suoi limiti: iniziava la Grande Depressione.

Thursday, October 24, 1929 has the dubious honor of being called Black Thursday because it was on this day that the New York Stock Exchange crashed, heralding the end of the "Roaring Twenties" and the beginning of the Great Depression. We've all read about it in the history books, but what was it like for the people of the time? What did they see in the newspaper when it happened? What did they see that might have warned them of the impending trouble -- or worse, might have helped cause it?? In the 1920's, things were really rocking in the US and around the world. The rapid increase in industrialization was fueling growth in the economy, and technology improvements had the leading economists believing that the uprise would continue. During this boom period, wages increased along with consumer spending, and stock prices began to rise as well. Billions of dollars were invested in the stock market as people began speculating on the rising stock prices and buying on margin. The enormous amount of unsecured consumer debt created by this speculation left the stock market essentially off-balance. Many investors, caught up in the race to make a killing, invested their life savings, mortgaged their homes, and cashed in safer investments such as treasury bonds and bank accounts. As the prices continued to rise, some economic analysts began to warn of an impending correction, but they were largely ignored by the leading pundits. Many banks, eager to increase their profits, began speculating dangerously with their investments as well. Finally, in October 1929, the buying craze began to dwindle, and was followed by an even wilder selling craze. On Thursday, October 24, 1929, the bottom began to fall out. Prices dropped precipitously as more and more investors tried to sell their holdings. By the end of the day, the New York Stock Exchange had lost four billion dollars, and it took exchange clerks until five o'clock AM the next day to clear all the transactions. By the following Monday, the realization of what had happened began to sink in, and a full-blown panic ensued. Thousands of investors -- many of them ordinary working people, not serious "players" -- were financially ruined. By the end of the year, stock values had dropped by fifteen billion dollars. Many of the banks which had speculated heavily with their deposits were wiped out by the falling prices, and these bank failures sparked a "run" on the banking system. Each failed bank, factory, business, and investor contributed to the downward spiral that would drag the world into the Great Depression. Entrò in crisi l’intero mercato agricolo, crisi che, con l’impossibilità da parte degli agricoltori, grandi clienti delle banche di prestito, di pagare i debiti, causò il crollo del sistema creditizio, col fallimento di molte banche. Nel 1933 le industrie Usa producevano la metà di quanto non facessero nel 1928, con, per conseguenza, il 25% della forza lavoro a spasso: 13 milioni di disoccupati. L’economia migliorò con il Welfare State, ossia lo stato sociale, fondato da F.D. Roosevelt, presidente degli Usa dal 1932 al 1945. In effetti, il suo New Deal, il nuovo corso che impose all’economia, fu il primo tentativo di conciliare il capitalismo con l’attenzione alle classi più deboli economicamente, riformando profondamente l’economia americana, che, fino ad allora, era improntata al puro e semplice liberismo d’iniziativa privata. In pratica, Roosevelt si lanciò in una politica economica basata su grossi investimenti pubblici e su di una partecipazione (e, quindi, un controllo) da parte dello Stato nell’attività economica. In U.S. history, New Deal for the domestic reform program of the administration of Franklin Delano Roosevelt; it was first used by Roosevelt in his speech accepting the Democratic party nomination for President in 1932. The New Deal is generally considered to have consisted of two phases. The first phase (1933-34) attempted to provide recovery and relief from the Great Depression through programs of agricultural and business regulation, inflation, price stabilization, and public works. Meeting (1933) in special session, Congress established numerous emergency organizations, notably the National Recovery Administration (NRA), the Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC), the Agricultural Adjustment Administration (AAA), the Civilian Conservation Corps, and the Public Works Administration. Congress also instituted farm relief, tightened banking and finance regulations, and founded the Tennessee Valley Authority. Later Democratic Congresses devoted themselves to expanding and modifying these laws. In 1934, Congress founded the Securities and Exchange Commission and the Federal Communications Commission and passed the Trade Agreements Act, the National Housing Act, and various currency acts. The second phase of the New Deal (1935-41), while continuing with relief and recovery measures, provided for social and economic legislation to benefit the mass of working people. The social security system was established in 1935, the year the National Youth Administration and Work Projects Administration were set up. The Fair Labor Standards Act was passed in 1938. The Revenue Acts of 1935, 1936, and 1937 provided measures to democratize the federal tax structure. A number of New Deal measures were invalidated by the Supreme Court, however; in 1935 the NRA was struck down and the following year the AAA was invalidated. The President unsuccessfully sought to reorganize the Supreme Court. Meanwhile, other laws were substituted for legislation that had been declared unconstitutional. The New Deal, which had received the endorsement of agrarian, liberal, and labor groups, met with increasing criticism. The speed of reform slackened after 1937, and there was growing Republican opposition to the huge public spending, high taxes, and centralization of power in the executive branch of government; within the Democratic party itself there was strong disapproval from the "old guard and from disgruntled members of the Brain Trust. As the prospect of war in Europe increased, the emphasis of government shifted to foreign affairs. There was little retreat from reform, however; at the end of World War II, most of the New Deal legislation was still intact, and it remains the foundation for American social policy. Il New Deal avrebbe trovato forma compiuta nell’opera "Teoria generale dell’impiego, dell’interesse e della moneta", che, nel 1936, fu pubblicata dall’economista inglese J.M. Keynes[4], che indicò proprio nell’intervento dello Stato a sostegno della domanda la soluzione del problema. Secondo Keynes i soli meccanismi del mercato non sono sufficienti per cercare di ottenere in un sistema economico la piena occupazione dei fattori produttivi e in particolare del fattore lavoro. Se non interviene la politica economica a correggere le disfunzioni, spesso nel sistema capitalista si realizza un equilibrio tra la domanda e l'offerta globali caratterizzato da una sottoccupazione dei fattori. All'origine delle crisi spesso è il sottoconsumo: all'aumentare dei redditi infatti nelle economie avanzate i soggetti economici tendono ad aumentare i consumi in misura meno che proporzionale; viceversa i risparmi aumentano in misura maggiore, senza assicurare necessariamente un aumento degli investimenti produttivi nella stessa misura. Il mercato della moneta infatti non garantisce automaticamente l'uguaglianza tra risparmi e investimenti così come era sostenuto invece dalla teoria tradizionale. D'altra parte queste due grandezze non dipendono solo dalle variazioni del tasso di interesse: i risparmi dipendono soprattutto dal livello del reddito e tendono ad aumentare in misura più che proporzionale rispetto all'aumento dei redditi; gli investimenti invece dipendono molto dalle aspettative di profitto degli imprenditori: le imprese pertanto, anche in presenza di bassi tassi d'interesse, non sono indotte ad investire se non hanno soddisfacenti aspettative sui rendimenti futuri. Un basso livello di investimenti inoltre può far aumentare la disoccupazione che a sua volta contribuisce a provocare una diminuzione della domanda di beni di consumo. Si genera quindi spesso una carenza di domanda aggregata complessiva (consumi + investimenti) che provoca le crisi, caratterizzate da una sovrapproduzione (in pratica le imprese non riescono più a collocare sul mercato ciò che producono). Per affrontare in maniera adeguata tali situazioni è necessario l'intervento dello stato attraverso adeguate misure di politica economica e in particolare di politica finanziaria anticongiunturale (incremento delle spese pubbliche, da finanziare anche col ricorso all'indebitamento pubblico e diminuzione del carico fiscale, soprattutto per i soggetti meno abbienti che hanno una maggiore propensione marginale al consumo). Secondo Keynes è necessario quindi abbandonare i principi del laissez – faire (lasciar fare) che caratterizzavano la teoria economica classica. Le tesi sostenute da Keynes contengono inoltre anche forti implicazioni sul piano sociale in quanto gli interventi pubblici volti a favorire un incremento della domanda dei beni di consumo presuppongono che nei sistemi capitalistici il reddito sia distribuito in maniera più equa tra i vari soggetti economici. Una grande concentrazione di reddito nelle mani di pochi d'altra parte provoca un aumento della propensione al risparmio, che potrebbe non essere utilizzato ai fini produttivi (in sostanza si tradurrebbe in un fattore "non occupato"), con conseguente crisi economica derivante da una domanda globale insufficiente. Sotto molti aspetti quindi la teoria keynesiana può essere considerata "rivoluzionaria" rispetto alla teoria economica tradizionale (classica e neoclassica). Se le democrazie occidentali reagirono alla crisi del ’29 in chiave Keynesiana, da parte delle dittature socialnazionali l’intervento statale nel reggere il timone dell’economia fu ancora più drastico. Per Marx, invece, il regno della libertà comincia solo là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna: è libertà dal lavoro, dalla costrizione esterna, 'l'uomo produce veramente solo libero dal bisogno', dalla necessità naturale della produzione materiale; la libertà comincia dove il lavoro finisce; la libertà è nel tempo libero. Partendo dal presupposto che la situazione normale del regime capitalistico è un livello variabile di occupazione, le teorie di Keynes in contrasto con le teorie classiche tradizionali che consideravano normale l'equilibrio stabile al livello di pieno impiego, hanno lo scopo di analizzare le forze che determinano il volume complessivo dell'occupazione e della produzione e di spiegare l'esistenza di una disoccupazione involontaria permanente. Se per gli economisti classici la disoccupazione, considerata solo come volontaria, era il risultato di un'insufficiente elasticità dei salari, per Keynes essa deriva da una deficienza della domanda effettiva totale che determina un equilibrio di sottoccupazione. Poiché la domanda di beni di consumo, retta dalla legge della propensione al consumo, tende a diminuire in valore relativo all'aumentare del reddito, la domanda effettiva determinerà un incremento dell'occupazione solo se aumenteranno gli investimenti. La propensione all'investimento, a sua volta, dipende dal rapporto fra la redditività prevista dei nuovi investimenti (efficienza marginale del capitale) e il tasso di interesse legato al grado di preferenza per la liquidità e alla quantità di moneta. Tre fattori, quindi, possono causare una sottoccupazione nel capitalismo contemporaneo: la diminuzione relativa delle spese per beni di consumo che deriva dalla disuguaglianza nella distribuzione del reddito, l'instabilità e la tendenza al declino nel lungo periodo dell'efficienza marginale del capitale, dovuta al decremento dei rendimenti presunti, e un livello troppo alto del tasso di interesse che, in quanto determina l'efficienza marginale del capitale, provoca la diminuzione della propensione all'investimento. Non esistendo alcun rimedio automatico alla disoccupazione, secondo Keynes è compito dello Stato tentare di raggiungere e di mantenere la piena occupazione mediante un'adeguata politica economica. Tale politica deve consistere nell'elevare la propensione al consumo mediante l'adozione di un sistema di tassazione progressiva tale da redistribuire più equamente il reddito; nel favorire gli investimenti privati diminuendo il tasso di interesse; nell'incrementare gli investimenti pubblici particolarmente nei periodi di depressione. La rivoluzione portata da Keynes nella teoria economica, sovvertendo i princìpi ormai cristallizzati dell'economia classica tra cui quello del laissez faire, va ben oltre la spiegazione della sottoccupazione e gli enunciati di politica economica. La nota originale del pensiero keynesiano consiste in modo particolare nel metodo di analisi: per il suo carattere "generale" (in opposizione alla teoria classica che considerava solo il caso "particolare" dell'equilibrio stabile al livello di piena occupazione), per il suo uso delle quantità globali (in contrapposizione al punto di vista microeconomico), il fatto di insistere su determinate variabili (consumo, investimenti, tasso di interesse). D'altra parte Keynes ha influenzato non solo la teoria ma anche la politica economica pratica, soprattutto nell'ambito congiunturale e dell'azione contro la disoccupazione e l'inflazione. Keynes ha inventato una nuova branca della teoria economica, la macroeconomia, ossia lo studio del comportamento del sistema economico nel suo complesso, e non lo studio del comportamento di individui, imprese o settori industriali. Fra le molte definizioni date d’inflazione, secondo le teorie recenti, si parla di eccedenza della domanda globale sull’offerta globale: cioè ci si riferisce ai due fenomeni congiunti dell'aumento dei prezzi e alla diminuzione del potere d'acquisto della moneta, causati spesso dal disordine economico e dai turbamenti sociali. L’inflazione è, secondo Keynes, l’aumento del potere di acquisto al quale non segue il simultaneo aumento della produzione complessiva. Invece oggi si ritiene in genere come aumento dei prezzi, a causa dell’eccessiva circolazione di moneta. A testimonianza di ciò l'economista Irving Fischer elaborò nel XIX° sec. la teoria quantitativa della moneta, nella quale egli affermò che un aumento della quantità di moneta in circolazione provocava un aumento del livello generale dei prezzi, se restano ferme le altre grandezze del sistema. Ciò è espresso dalla seguente formula V*M=p*T ove :

V= velocità di circolazione della moneta,

p= livello generale dei prezzi,

M= numero unità monetarie circolanti,

T= ammontare complessivo degli scambi effettuati in un anno.

Opponendosi chiaramente alla teoria quantitativa, la legge marxista della circolazione monetaria enunciava che la quantità di oro circolante dipendeva dal valore delle merci. Invece, il valore dei biglietti non poteva dipendere che dalla loro stessa quantità in circolazione. Finché questa quantità corrispondeva alla quantità di oro che avrebbe normalmente circolato il biglietto conservava il valore che gli era assegnato dalla sua funzione; ma se questa legge di proporzione era violata, di conseguenza se la quantità di biglietti superava i bisogni della circolazione delle merci, e vi era «creazione» di moneta, risultante da una causa che non fosse economica, questa massa eccessiva di biglietti continuava a non rappresentare che la quantità di oro economicamente indispensabile. Cioè se la quantità di biglietti raddoppiava, ogni unità monetaria carta non rappresentava che una quantità di oro eguale alla metà della quantità primitiva. Con una circolazione di oro, l'oro in soprappiù era semplicemente tolto dalla circolazione; invece i biglietti in soprappiù, se non potevano essere convertiti in oro erano convertiti in merci; la richiesta di queste raddoppiava artificialmente e di conseguenza anche i prezzi raddoppiavano. C'era inflazione di biglietti perché la loro emissione oltrepassava le necessità economiche e si effettuava nel vuoto esattamente come nel caso di emissione di un assegno su un conto bancario in cui non esistesse un centesimo; con questa differenza, tuttavia, che il pagamento dell'assegno bancario sarebbe rifiutato mentre la carta monetata aveva un corso forzoso. Una circolazione «sana» di biglietti non poteva dunque muoversi che in limiti strettamente determinati e questa stessa condizioni costrinse a dar loro una consacrazione legale che non poteva essere imposta che all'interno dei confini nazionali. L'oro, come mezzo di circolazione, prese così due forme monetarie che si opposero sempre più con l'evoluzione stessa del Capitalismo: una, la sua forma pura, materiale che continuava ad essere il solo aspetto sotto il quale esso appariva come strumento internazionale degli scambi e dei pagamenti (indipendentemente da mezzi più estesi come la lettera di cambio); l'altra, la sua forma carta che circolò nell'interno di ogni nazione capitalistica dove poté identificarsi con l'oro nei limiti di una normale emissione, mentre il suo valore internazionale si regolò col corso del cambio.

Nasce tra l’800 e il 900 una letteratura sociale che vuole indagare i processi di devianza umana che è una via significativa che contrasta con l’ideologia della borghesia. Alla base del nuovo romanzo ed ai suoi risvolti, sta la nascita del Positivismo, con la fiducia nelle scienze, nel progresso e nel determinismo. Così di qui deriva l'idea, che il metodo scientifico sperimentale possa essere applicato alla letteratura, in modo che essa divenga una scienza capace di possedere il meccanismo dei fenomeni umani. Taine dice che la vita di ogni uomo è riconducibile a race, milieu et moment: la race è la razza, il milieu è il contesto sociale, il moment è il momento storico. La società può essere studiata come una scienza e determinata secondo fattori di calcolo. Zola scrive dei romanzi, ove indaga la bête humaine, cioè l’uomo-animale e studia la tara ereditaria di prostituzione e alcolismo che si tramanda di generazione in generazione. Se in Francia il Naturalismo si sviluppa intorno alla realtà cittadina, in Italia il Verismo nasce con un’impronta strettamente regionalista e paesana. Il Verismo è il movimento letterario manifestatosi in Italia nell'ultimo trentennio del XIX secolo. Il termine viene impiegato specificamente per indicare la nuova narrativa orientata verso il modello del naturalismo francese, anche se si fa riferimento, come affermava Luigi Capuana, più al metodo e ai principi del narrare che non alla materia trattata. Il termine aveva avuto corso in Italia, a partire dagli anni Sessanta, per indicare le esperienze narrative degli anni Cinquanta, posteriori ad Alessandro Manzoni, che si collocavano nella prospettiva del realismo, e accentuare l'intenzione degli scrittori di accostarsi al "vero" cogliendolo nelle forme più evidenti e dirette. Fu il caso della letteratura "campagnola", di cui il maggiore rappresentante fu Ippolito Nievo (si pensi alla Georges Sand in Francia), e fu il caso, ricco di ragioni polemiche e non senza qualche tentativo sperimentale, della scapigliatura. Un salto di qualità, nel progetto di offrire una rappresentazione non convenzionale del "vero", si verificò a partire dagli anni Settanta, con la ripresa del modello narrativo francese e con la poetica del naturalismo nutrita dei principi del sociologismo estetico. A questa ripresa si aggiunse una nuova attenzione (dopo la proclamazione dello Stato unitario) per la realtà regionale, soprattutto meridionale, i cui caratteri culturali si erano imposti come estranei e stranianti. Proprio dalla combinazione di questi due interessi (naturalismo e realtà regionale) derivarono i risultati maggiori del verismo italiano, che raggiunse il suo momento più alto negli anni Ottanta con l'opera di Giovanni Verga e di Luigi Capuana. Questi autori rappresentano un mondo immobile, fuori dalla storia, in cui i personaggi vivono sentimenti elementari e radicali, con pervicacia autodistruttiva entro un contesto di ingiustizie e sofferenze collettive, senza speranza di riscatto e senza capacità di elaborare un progetto di redenzione. Sono scrittori (soprattutto Verga) che raccontano in modo distaccato, senza attivare processi di identificazione tra il lettore e la materia narrata, e quindi senza giocare sul transfert narrativo. È questo uno dei modi di applicare il principio dell'impersonalità. Un altro modo di garantire il distacco da parte dall'autore (ma, in prospettiva, anche del lettore) è quello di non proporre il mondo narrato come un modello o come carico di valori, bensì di presentarlo come se si trattasse di un reperto scientifico. L'applicazione del canone dell'impersonalità favorì l'elaborazione di alcune tecniche espressive come il dialogo o il discorso indiretto libero (Verga) e l'impiego di registri espressivi più bassi fino, in qualche caso (ma certamente non in Verga), al ricorso al dialetto. Una delle ambizioni di questi narratori era quella di elaborare una lingua adatta a tutta l'Italia borghese. Tuttavia esiste un grande scarto tra i registri linguistici, oltre che tra le tematiche, utilizzati dai vari autori: si va dalla ripresa del modello verghiano nel genovese Remigio Zena (1850-1917), ai toni forti e drammatici del toscano Mario Pratesi (1842-1921), dal recupero della dimensione psicologica pur entro un attento quadro storico da parte di Federico De Roberto al documentarismo di Matilde Serao, dal curioso bozzettismo di Renato Fucini (1843-1921) all'opera di Gaetano Carlo Chelli (1847-1904), che offre uno spaccato della trasformazione della Roma divenuta nuova capitale attraverso la saga di una famiglia di bottegai. Teorico del verismo è considerato Luigi Capuana, che è anche uno scrittore interessante: nell'insieme, la sua opera è un vasto interrogativo sul ruolo determinante giocato dai luoghi, dall'epoca e dalle condizioni sociali e professionali sul carattere dell'individuo, secondo il procedimento del romanzo sperimentale francese. Per comprendere l'innovazione sul piano formale del Verismo, ci riferiremo ai Malavoglia di Verga. Qui, alla voce del narratore onnisciente, si sostituisce un anonimo autore popolare, che offre un repertorio di situazioni e fatti in cui l'autore non entra mai in scena. I Malavoglia, come dice Russo, è un romanzo polifonico dove ogni personaggio è oggetto della parola del narratore e soggetto della propria parola. Si parla, infatti, di una voce camaleontica. Verga utilizza svariate tecniche innovative: lo straniamento, ad esempio,  consiste nella differenza tra il punto di vista del personaggio e quello della voce narrante (nel secondo capitolo il disastro della Provvidenza, non è visto con l'ottica dei Malavoglia, ma con l'ottica degli abitanti del villaggio); oppure consiste nella rappresentazione di ciò che è normale come strano (nel quarto capitolo i Malavoglia chiedono a Don Silvestro come pagargli il debito: egli convince Maruzza a rinunciare all'ipoteca sulla casa); oppure consiste nella rappresentazione di ciò che è strano come normale (nel quindicesimo capitolo, agli occhi dei paesani la decisione di non mandare il nonno all'ospedale, "normale" per l'affetto diventa strana per chi si pone nell'ottica dell'utile).  Verga usa anche concatenazioni cioè ripetizioni di una frase tra una sequenza l'altra, creando effetto di circolarità (alla fine del terzo capitolo. "e la barca era piena più di quaranta onze di lupini; all'inizio del quarto cap.. "il peggio era che lupini li avevano presi a credenza"). In un secolo di profonde innovazioni, anche la letteratura assorbe le influenze del pensiero scientifico.

L’idea dell’uguaglianza sociale è un problema che ha animato nella storia umana soltanto gli uomini illuminati e ricchi di umanità. Nella storia umana a partire dalla nascita delle società civilizzate, si è determinata una netta separazioni di classi sociali, cioè una gerarchia fra ricchi e poveri, fra nobili e schiavi, fra cittadini e non. Anche nella civilissima e avanzatissima Atene erano cittadini solo gli Ateniesi, e seppur democratica nell’interno, la politica della città era quella di tirannia verso le proprie colonie e i non-ateniesi detti barbari. L’idea di uguaglianza inizia a penetrare nella società con la nascita del Cristianesimo. Fino alla Rivoluzione Francese del 1789, eccetto parzialmente l’Inghilterra, che aveva un sistema già costituzionale, l’intera popolazione povera mondiale soggiaceva agli ordini del padrone, del ricco o del nobile. La rivoluzione francese ha rappresentato nella storia dell'umanità un evento centrale, uno spartiacque tra due società: la società feudale e la società moderna. La rivoluzione francese nella realtà non è stata una "rivoluzione borghese"[5], poiché l'unica vera nuova classe sociale dominante nata dalla rivoluzione francese è stata la borghesia di Stato e, già a partire dalla rivoluzione, la lotta di classe tra questa nuova classe sociale dominante e le classi sociali subalterne è scoppiata violentissima. Fu la fine dell'Ancien Régime[6]. Ma dopo una prima fase popolare che culmina col periodo del Terrore, la borghesia dal 1794 riprende le redini del potere. Lo sviluppo della borghesia commerciale ed industriale in Francia alla fine del '700, non è stata la causa, ma la conseguenza di una rivoluzione, che ha visto la graduale trasformazione della aristocrazia di Stato in un altro tipo di classe sociale dominante, molto più potente ed assolutista, la borghesia di Stato. La centralizzazione dello Stato, iniziata in Francia con la rivoluzione e generalizzata da Napoleone in tutta Europa, è il frutto della nascita di una nuova classe sociale dominante: la borghesia di Stato. La borghesia commerciale ed industriale ne ha tratto vantaggio nel senso che la caduta dell'aristocrazia tradizionale le ha lasciato più spazio per le proprie attività, ma, se lo ricordino bene gli storici, non è stata lei a scatenare la rivoluzione francese né a condurla e a trarne i maggiori benefici. Nel Congresso di Vienna del 1814-1815,  secondo il principio di legittimità si riaffermò il totale Assolutismo, restituendo a tutti i sovrani i territori che avevano prima dell’Impero di Napoleone. Si tornò all’Ancien Régime, togliendo ogni diritto al popolo, e credendo di poter spazzar via soffocandolo il trittico rivoluzionario (liberté, fraternité, égalité) per poi dar esito a tante e tante rivoluzioni come la Comune di Parigi o la rivoluzione russa. Il cammino verso l’umanità che il Socialismo ha portato avanti nella società è quello che idealmente consentiva parità e uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge: poi però la condizione non era uguale per tutti, come ad esempio per i capi come Lenin e Stanlin : il popolo si era però sollevato per la ricerca degli stessi diritti e condizioni di vita, che sarebbero dovuti spettare  a ogni uomo: ma questa fu un’utopia anche il comunismo, che le famose purghe uccise e perseguitò i suoi oppositori.


 

[1] Egli nacque a TREVIRI il 5 Maggio 1818, studiò filosofia e diritto alle Università di Bonn e Berlino, dove entrò in contatto colla filosofia Hegeliana, cui in un primo tempo aderì. Laureato nel 1841, abbandonò le aspirazioni di carriera accademica per dedicarsi al giornalismo politico. A causa di questa attività, fu costretto ad abbandonare la Germania per Parigi, dove conobbe Engels. Nel 1845 venne espulso dalla Francia e riparò in Belgio. Qui scrisse con Engels il Manifesto del Partito Comunista,in cui teorizza il Comunismo scientifico, contrapposto a quello utopistico. In quegli stessi anni seguì con attenzione le varie rivoluzioni che si succedettero in Europa. Nel 1849 si stabilì a Londra. Qui si dedicò agli studi di economia i cui frutti sono raccolti, tra le altre opere, nel "Das Kapital", purtroppo incompiuto. Nel 1864 fu tra i fondatori della 1° Internazionale, dove si scontrò aspramente coi rappresentanti della cosiddetta "corrente anarco-comunista", tra cui spiccavano Lasalle, Prroudhon, Bakunin. Nel 1872 ottenne che la corrente anarco-comunista venisse espulsa dall'Internazionale, che soffriva il contraccolpo del fallimento della Comune di Parigi, esperienza politica in cui lo stesso Marx poté rilevare elementi che prefiguravano la "dittatura del proletariato". Negli ultimi dieci anni di vita, provato da problemi familiari, attese alla stesura de "Il Capitale" (di cui il 2° e il 3° capitalo vennero pubblicati postumi da Engels) e si adoperò nell'intento di ridare vita all'Internazionale. Morì a Londra nel 1883.

[2] Anche sul piano sociale, le ideologie di Marx ed Engels penetrano nella società, già con la Prima Internazionale del 1864, che prepara la Comune di Parigi del 1871, che fu una rivoluzione nata dagli strati popolari e operai della capitale francese contro il governo di Thiers, che dopo la resa alla Germania, per la sconfitta di Napoleone III, aveva tentato di disarmare la Guardia Nazionale. Essa portò a miglioramenti per il proletariato, tramite la confisca delle proprietà ecclesiastiche, con la livellazione degli stipendi e l’aumento dei salari degli operai. Nel frattempo anche in Italia Andrea Costa si fece propugnatore della Costituzione di un Partito Socialista, che nacque a Genova nel 1893.

[3] La rivoluzione comunista è la più radicale rottura con i rapporti tradizionali di proprietà; nessuna meraviglia che nel corso del suo sviluppo si rompa con le idee tradizionali nella maniera più radicale. Ma lasciamo stare le obiezioni della borghesia contro il comunismo. Abbiamo già visto sopra che il primo passo sulla strada della rivoluzione operaia consiste nel fatto che il proletariato s'eleva a classe dominante, cioè nella conquista della democrazia. Il proletariato adoprerà il suo dominio politico per strappare a poco a poco alla borghesia tutto il capitale, per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato, cioè del proletariato organizzato come classe dominante, e per moltiplicare al più presto possibile la massa delle forze produttive. Naturalmente, ciò può avvenire, in un primo momento, solo mediante interventi despotici nel diritto di proprietà e nei rapporti borghesi di produzione, cioè per mezzo di misure che appaiono insufficienti e poco consistenti dal punto di vista dell'economia; ma che nel corso del movimento si spingono al di là dei propri limiti e sono inevitabili come mezzi per il rivolgimento dell'intero sistema di produzione. Queste misure saranno naturalmente differenti a seconda dei differenti paesi. Tuttavia, nei paesi più progrediti potranno essere applicati quasi generalmente i provvedimenti seguenti:

1.        Espropriazione della proprietà fondiaria ed impiego della rendita fondiaria per le spese dello Stato.

2.        Imposta fortemente progressiva.

3.        Abolizione del diritto di successione.

4.        Confisca della proprietà di tutti gli emigrati e ribelli.

5.        Accentramento del credito in mano dello Stato mediante una banca nazionale con capitale dello Stato e monopolio esclusivo.

6.        Accentramento di tutti i mezzi di trasporto in mano allo Stato.

7.        Moltiplicazione delle fabbriche nazionali, degli strumenti di produzione, dissodamento e miglioramento dei terreni secondo un piano collettivo.

8.        Eguale obbligo di lavoro per tutti, costituzione di eserciti industriali, specialmente per l'agricoltura.

9.        Unificazione dell'esercizio dell'agricoltura e della industria, misure atte ad eliminare gradualmente l'antagonismo fra città e campagna.

10.     Istruzione pubblica e gratuita di tutti i fanciulli. Eliminazione del lavoro dei fanciulli nelle fabbriche nella sua forma attuale. Combinazione dell'istruzione con la produzione materiale e così via.

Quando le differenze di classe saranno scomparse nel corso dell'evoluzione, e tutta la produzione sarà concentrata in mano agli individui associati, il pubblico potere perderà il suo carattere politico. In senso proprio, il potere politico è il potere di una classe organizzato per opprimerne un'altra. Il proletariato, unendosi di necessità in classe nella lotta contro la borghesia, facendosi classe dominante attraverso una rivoluzione, ed abolendo con la forza, come classe dominante, gli antichi rapporti di produzione, abolisce insieme a quei rapporti di produzione le condizioni di esistenza dell'antagonismo di classe, cioè abolisce le condizioni d'esistenza delle classi in genere, e così anche il suo proprio dominio in quanto classe. Alla vecchia società borghese con le sue classi e i suoi antagonismi fra le classi subentra una associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti. ( Da Il Manifesto del Partito Comunista).

[4] Economista inglese (Cambridge 1883 - Firle, Sussex, 1946), figlio del precedente. Compì i suoi studi a Cambridge, dedicandosi inizialmente alla matematica e solo in un secondo tempo all'economia; dal 1906 al 1908 lavorò al ministero per l'India. Nel 1913 pubblicò il suo primo libro, Circolazione monetaria e finanza indiana, in cui esamina il funzionamento del gold exchange standard . Docente a Cambridge, direttore dell'Economic Journal, finanziere, durante la prima guerra mondiale fu funzionario del ministero del tesoro (alla divisione per i prestiti interalleati), che rappresentò alla conferenza per il trattato di pace di Versailles nel 1919. Keynes si dimise tuttavia da tale carica essendo in disaccordo sulle clausole finanziarie del trattato di pace; contro l'eccessiva richiesta di riparazioni presentata ai paesi vinti scrisse Le conseguenze economiche della pace (1919). Negli anni seguenti, mentre si delineava sempre più chiaramente il suo dissenso dalle teorie classiche liberistiche, criticò la politica di deflazione seguita dal governo britannico per raggiungere la parità aurea, pubblicando un opuscolo polemico contro W. Churchill: Conseguenze economiche di Winston Churchill (1925). Sono degli stessi anni la Riforma monetaria (1923), in cui tratta della teoria quantitativa della moneta e del problema della stabilità monetaria, e un Trattato sulla moneta (1930), che verte sostanzialmente sul rapporto intercorrente tra investimento e risparmio. Nel 1936 pubblicò l'opera fondamentale, Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta, in cui analizza le cause della disoccupazione. Divenuto lord nel 1942, rappresentò la Gran Bretagna alla conferenza di Bretton Woods. Fra le altre sue opere: Trattato sulla probabilità (1921), Politici ed economisti (1933), Come pagare la guerra (1940).

 

[5] La critica, in questi ultimi due secoli, ha visto nella rivoluzione francese essenzialmente una "rivoluzione borghese", nel senso che essa ritiene che si sia trattato essenzialmente di un fenomeno sociale che ha condotto alla sostituzione di una classe sociale dominante, l'aristocrazia, con una nuova classe sociale dominante, la grande borghesia commerciale ed industriale.

2 La società francese dell’Ancien Régime era costituita da:

·         l'aristocrazia burocratica di Stato, costituita dal re, dal governo e da quella parte della corte che in qualche modo interveniva direttamente nei processi decisionali, che nel regime dell'Assolutismo ereditato da Luigi XIV rappresentava la classe sociale dominante dal momento che deteneva nelle sue mani la quasi totalità del potere politico;

·         l'aristocrazia tradizionale, una specie di burocrazia politico-militare di origine medioevale a cui era affidata la gestione amministrativa dello Stato da cui traeva i propri privilegi, che si caratterizzava per la attribuzione individuale delle cariche e dei poteri e per la loro trasmissione ereditaria;

·         la burocrazia clericale, che partecipava insieme alla aristocrazia tradizionale alla gestione amministrativa dello Stato e alla possibilità di sfruttamento delle classi popolari tipiche dell'aristocrazia tradizionale;

·         la borghesia commerciale, industriale e finanziaria, che, a partire dal regno di Luigi XIV e, quindi, dalla nascita della aristocrazia burocratica di Stato in quanto classe sociale dominante autonoma rispetto alla aristocrazia tradizionale e portatrice di interessi radicalmente diversi - il primo interesse della aristocrazia di Stato, al contrario della aristocrazia tradizionale non è l'aumento dei propri privilegi economici, ma il costante incremento del sovrapotere istituzionale e sociale concentrato nelle sue mani -, era riuscita a ritagliarsi degli spazi sempre maggiori nel sistema economico e sociale francese;

·                le classi sociali subalterne, costituite in prevalenza da contadini e da artigiani.