IL ROMANZO DEL '900: SVEVO E PIRANDELLO 

 

Massimiliano Badiali 1999

Il termine "Decadentismo", come definizione dì un periodo letterario permane solo in Italia : contemporaneamente in Francia e Spagna si usa il termine "Il Surrealismo " (parola che indica approdo alla realtà, e perforazione di questa per andare a vedere che cosa c'è sotto, " sotto il reale " appunto). In Francia abbiamo anche il grande " Simbolismo " che implica un andare oltre la logica, un attraversare la natura per attingere significati metafisici.

Se l'asse Illuminismo-Naturalismo-Verismo fino al neorealismo italiano o al grande realismo europeo è un asse tipicamente ottocentesco, descrittivo della realtà, la realtà del romanzo del '900. Il romanzo del '900 di Giacorno Bebenedetti, è, interrogativo, notturno, teso verso l'ignoto : all'ottimismo subentra il senso della catastrofe e non in tempi successivi alla Prima guerra mondiale, ma già a cavallo dell'800-'900,

Alte sicurezze razionalistiche subentra [a crisi (è quella che Mario Praz definisce " età dell'ansia ". Secordo il Praz infatti il decadentismo è l'epoca di D'Annunzio. Pascoli e Fogazzaro. e, poi inizia I'" età ansia ". Secondo altri critici, corne il Gioanola, il decadentismo arriva invece fino ai giorni nostri): il superuomo dannunziano o il ,sottuomo, il fanciullino pascoliano, ci indicano che l'uomo tout court non c'è. Quel non-uomo, quella negatività è il segno inconfondibile di tinta l'arte dei '900: l'io è un io malato, sgretolato, l’arte è sempre più una Provocazione. L’arte da orizzontale si fa verticale: dalla domanda " che cosa c'è dietro " (cioè dagli effetti risalire alle causa, secondo un'idea di legge precisa che regola la vita), si passa alla domanda " che cosa sta sotto ", qual è la " sub-stantia " nascosta sotto le apparenza, qual è, il senso della realtà, Così, sulla scia dei grandi nomi come Debenedetti, Gioanola, Apollonio. Carlo Bo e motti altri critici, ho tentato di definire il < cuore " della svolta nella narrativa soprattutto. Più in generale nella letteratura e nella cultura a cavallo tra '800-900.

Chiamiamo pertanto " Decadentismo " (in quanto dinamica "discendente", tesa al " sotto >, al " senso ") tutta la grande letteratura italiana ed europea post-verista e post-naturalista.

Croce, pontefice massimo della cultura italiana della prima metà (del secolo, ha definito i tre primi decadenti, cioè Pascoli, D*Annunzio e Fogazzaro come " malati dì nervi ", la loro poesia come malata, decadente perché lontana dai grandi valori romantico-borghesi- così il Croce ha ucciso gli sviluppi europei della nostra letteratura (Rebora, Campana, Sbarbaro, Boine ecc.: ridotti al silenzio, a volte suicidi). Croce ha insomma compiuto la stessa operazione che Carducci aveva compiuto con gli scapigliati: ridicolizzarli, esorcizzarne )a portata eversiva per la nostra cultura, che non a caso diventerà un po' stantia in questo periodo (si comincerà a parlare di provincialismo, ecc .... ). Il terzo non-io di " pontifex " che voglio citare è Lukas, che condanna tutto il grande decadentismo europeo, cioè Kafka, Carnus, Thomas Mann, Hemingway. Tre uomini diversissimi tra loro (classicheggíante il Carducci, spiritualista-ídealista Il Croce, storico-marxista Lukacs) condannano, contestano questo asse scapigliatura-decadentismo-romanzo nuovo, in nome di quell'emisfero diurno, di quella solarità, di quello storicismo che li accomuna, ovvero di quella riduzione di tutto il reale all'orizzonte della storia, dell'immanente.

Lo storicismo in fondo non tenta di far altro che consegnare nelle mani dell'uomo il suo destino, di eliminare l’" Altro ". Ma questo Altro riemerge prepotente (vedi " l'uomo del sottosuolo " di Dostoevski, o l'uorno come " passione inutile " di Camus); insomma l'uomo, il soggetto protagonísta, si muove in un mondo di cui ha smarrito le coordinate, è un uomo smarrito, perduto: così è Zeno, cosi Mattia Pascal.

Se il Croce aveva definito tre malati di nervi i tre decadenti, cosi ci possono apparire come tre casi clinici anche Svevo, Pirandello e Tozzi, così su su fino a noi, fino a Pavese e Gadda. Ed è anche vero, sono malati di nervi (direi che la malattia nervosa è la malattia fondamentale dei '900); sono uomini che si sentono estraniati dalla realtà ambientale e culturale, sono soli contro tutti. Nevrosi, psicosi, schizofrenia (appunto la malattia dell'io) sono le connotazioni di questo tipo di uomo che percorre la letteratura del 900, vuoi come personaggio, vuoi come autore.

Ha dunque ragione Croce? No, non è una letteratura malata, ma piuttosto la malattia è sorgente d'una grande e sana letteratura, come ha scrítto il Gíoanola. accaduto che l'artista decadente (in questa accezione ampia, per cui " decadente " è la letteratura fino ai giorni nostri: non solo Tommasi di Lampedusa o Bassani, ma anche Pavese e Gadda) si è dovuto " ainmalare " per poter affermare la sua presenza; in una società razionalista, illuministico-hegeliana, tecnologica; In una società che ha compromesso il valore, l'autenticità, l'unicità della coscienza dell'io, l'artista decadente protesta contro questa alienazione.

Alla fine dei secolo della razionalizzazione che è arrivato anche a razionalizzare la morte nel lager o nel gulag, alla fine del secolo dei razionalismo per

fetto i decadenti appaiono non come lo specchio d'una letteratura borghese o

riflesso della crisi della borghesia, bensì come letteratura di resistenza, in nome di quella verità sull'uomo che la cultura borghese, razionalistica, tende sempre a soffocare.

Tutta la cultura decadente è il tentativo di allargare il concetto di ragione; non è il rifiuto della ragione ma rifiuto della sua riduzione, come hanno scritto gli uomini della scuola di Francoforte, a " ragione strumentale "; non ragione semplicemente come descrizione delle apparenze della realtà, coi-ne misuratrice di tutta la realtà, come ragione matematica, ma una ragione che vuole chiedersi il senso di tutto, il senso del prima e del dopo; una ragione che, scoprendo al proprio interno una ragionevole domanda (chi sono, da dove vengo, dove vado?), cerca di dare a questa una ragionevole risposta.

La grande cultura decadente appare dunque (a me come a Gioanola, come a Debenedetti) come la resistenza al tempo dell'idolatria tecnologica,dell'uomo sempre più meccanizzato, ridotto a strumento, a pedina, a molecola insignificante. Dunque una letteratura come apertura sul mistero, come apertura profondamente ragionevole; (non a caso i più grandi scienziati di questo secolo concepiscono la propria ragione come apertura sul mistero). Detto questo a mo' di orizzonte ermeneutico, interpretativo di tutta la nostra conversazione, proviamo a ripercorrere questi tre nomi: Italo Svevo, Federico Tozzi, e -più estesamente - Luigi Pirandello.

Svevo (1861-1928), nasce a Trieste, culla della cultura italiana dei periodo (accanto a Svevo ci sono Saba, Slataper ... ), affacciata sull'Europa, con influssi slavi, tedeschi (Ettore Shmitz = Italo Svevo, Italia e Germania quasi sposate in questo pseudonimo). Impiegato in banca, da autodidatta studia i classici, legge Shopenhauer (non a caso, l’anti-Hegel), i realisti francesi, pubblica a sue spese nel '92 Una Vita e nel '98 Senilità. I due grandi libri di Svevo passano inosservati; dal '99 lavora con suo suocero in una ditta di vernici sottomarine; comincia a star bene economicamente; dal 1905 inizia la sua amicizia con Joyce, che insegnava inglese a Trieste. Nel '23 esce La coscienza di Zeno e nel '25 lo sconosciuto Svevo diventa un nome famoso, quando Joyce e Montale lo " lanciano " in riviste non solo italiane ma anche straniere. Morirà tre anni dopo in un incidente stradale.

Ribadiamo schematicamente alcune premesse per inquadrare il " romanzo nuovo ": è un romanzo antinaturalista, ha i suoi campioni in Joyce e Proust (e anche in Kafka, come vedremo) diversissimi fra di loro ma uniti dallo stesso sguardo sulla realtà: la realtà è l'involucro di un segreto invisibile ed essenziale, l'involucro di un'anima in cui dimora il senso delle cose e della vita (anche la grande poesia contemporanea di Montale e Ungaretti si pone così rispetto al reale), di una sub-stantia di cui il romanziere raggiunge per un attimo la conoscenza. t un romanzo nuovo fisico e metafisico: registra cioè il visibile, il tangibile con una sottigliezza nuova, e in questo sembrerebbe il culmine del romanzo naturalista; ma poi va oltre: alla ricerca delle cause sostituisce quella del senso delle cose, di che cosa sta sotto.

Dirà Sartre in un saggio su Baudelaire: " cerchiamo il senso, l'immagine

della trascendenza umana ". Il senso è dunque ciò che va " oltre " L’uomo, ciò

che trascende la sua fisicità. La narrativa precedente era esplicativa, la nuova è

interrogativa: l'uomo non sa più chi è. C'è oramai una nuova fisica; all'ottimismo progressista, come abbiamo già detto, subentra un senso di catastrofe; e

l'uomo, riconoscendosi dissociato, schizoide (in greco = dividere),diviso, "diabolico", diviso tra apparenza e sostanza, tra cuore e mente, desidera tornare ad una risposta, ad una realtà simbolica = riunire ciò che era diviso).

Un uomo dissociato, schizoide dentro di sé, dunque anche fisicamente deformato, anche esteriormente deforme. Così ci appare l'uomo in questi tre scrittori: entro un romanzo interrogativo, cioè alla ricerca dei significato della vita, il protagonista è dissociato, dilacerato, deformato, tutto proteso verso una risposta adeguata alle grandi domande che ha dentro .

Tra i primi due romanzi di Svevo e il terzo ci sono 25 anni di silenzio: di questi 25 anni Svevo opera uno stacco formale ma entro una continuità sostanziale fra questi due tempi delle sua narrativa. Stacco formale perché passa dal verismo psicologistico alla psicanalisi (verso il 1908 aveva letto L'interpretazione dei sogni di Freud). In mezzo c'è dunque l'incontro con Freud, cori la psicanalisi, e La coscienza di Zeno risentirà profondamente di questo incontro. Ma al di là di questa differenza formale, tra i due romanzi c'è una continuità sostanziale, riscontrabile nel tipo d'uomo che è il protagonista: " un uomo come domanda ", un uomo che si saggia senza risolversi. Zeno è appunto l'uomo " inetto " a vivere, anche se il caso alla fine lo getta nella fortuna.

Svevo è un po' come Kafka (che muore nel '24 quasi inedito), ed è un po' come l'imputato del " Processo " kafkiano, perché per entrambi, per Svevo come per Kafka, la vita è un processo, una prigione. Sartre parlerà dei " pericolo di essere uomo ", perché l'uomo si accorge di essere sempre più esposto alle fortune e alle sfortune, ai doni e alle angherie della sorte.

Nel passaggio dalla prima epoca dell'opera di Svevo all'altra, il dramma sempre più si sposta dentro il personaggio, ed è un dramma come, confessione, come diario psicanalitico (come dice appunto il medico di Zeno). Montale, che nel '25 lancia Svevo, non ne comprende però la profondità: per lui Svevo è solo un naturalista migliore di tutti gli altri, un naturalista che va fino in fondo nella descrizione di questa "epica della grigia casualità quotidiana". Per noi invece Svevo mette in crisi la fruizione borghese del romanzo : un'arte che puoi degustare in poltrona, con le pantofole (il giudizio non è mio ma del Debenedetti). E’, la sua, un'arte che ti provoca, ti chiama a guardarti dentro; è un'arte che crea insicurezza.

'il vizio della lettura cessa di essere impunito"; diventa anzi sempre più

una virtù e una fatica, ma una fatica che alla fine permette di dire: " mi conosco un po' meglio ". Proprio per questo la grande cultura borghese tenta di emarginare ed esorcizzare quest'arte, e per anni questi autori passano sotto silenzio, e sono scoperti molto tardi, attorno agli anni '20 di questo secolo.

Coi-ne Zeno, anche il tempo è malato, e Zeno non fa nulla per guarire; riempie solo il diario di menzogne, quasi a descriverci l'inutilità della psicoterapia. Ci rimane l'impressione, il giudizio d'una inguaribilità: l'uomo è ammalato così in profondità che nessuna medicina lo può guarire. Questo è l'intimo sentimento di Zeno: l'inguaribilità dell'uomo non può cessare che con la scomparsa della specie umana (vedi l'ultima pagina del romanzo); solo cosi, paradossalmente, l'uomo si salverà.

La vicenda di Tozzi non è molto diversa. Tozzi, senese (1883-1920), socialista anarchico da adolescente, approderà ad un cattolicesimo mistico ed aggressivo. Lavorerà molto sulle confraternite, sugli scrittori senesi, su S. Caterina; sembrerà ai più come uno scrittore provinciale, forse il più provincíale tra tutti quelli del periodo; invece la critica recente lo ha riscoperto come uno dei tre colossi della narrativa italiana dell'inizio secolo, assieme a Svevo e Pírandello.

La critica ha notato come un libro del 19 10 di Tozzi, Ricordi di un impiegato, ha un protagonista, Leopoldo, che assomiglia moltissimo all'impiegato Gregorio nelle Metamorfosi di Kafka. Ma soprattutto sul capolavoro Con gli occhi chiusi (1912-1913) vorrei soffermare l'attenzione. Protagonista è Pietro; la donna verso cui è proteso si chiama Ghisola (che allude fonicamente all'isola, la " terra promessa ", l'ideale).

Il protagonista dei romanzo è tutto teso verso questa donna, che leopardianamente è la pienezza, la felicità; il titolo esprime il mito centrale di Tozzi. Pietro è un recluso, un sequestrato, un imprigionato dietro quella frontiera degli occhi chiusi, tagliato fuori dalla realtà giudícabile della vita concreta, perché una malattía agii occhi l'ha provvisoriamente accecato. Guarisce dalla cecità fisica, ma gli resta una cecità psicologica: non vuol più vedere il mondo. Così il romanzo si pone come un resoconto di una realtà quale essa appare a chi non possiede i criteri razionali per vederla nei suoi concatenamenti naturalistici, nei suoi nessi causa-effetto. La sua irrifiutabilità oggettiva è spaventosa; è come se Tozzi attraverso Pietro ci dicesse: se non vuoi rassegnarti ad un comportamento medio utilitaristico, economicistico (con Leopardi potremmo dire: se non vuoi rassegnarti a questa "età superba, / stolta, che l'util chiede, / e inutile la vita / quindi più sempre divenir non vede"), ad un comportamento presente anche oggi (pensa - a - divertirti - finché - sei - giovane), se non vuoi rassegnarti a tutto questo, cioè a ciò che era descritto nel romanzo naturalista, tu devi decidere di non vedere quella realtà, di chiudere gli occhi.

Così Tozzi coincide inconsapevolmente con la crisi del naturalismo, è l'autore che non vuol più vedere, e dì conseguenza inventariare la realtà; decide anzi di chiuderei sopra gli occhi. E’ dunque istintivamente, inconsciamente un pioniere; il suo repertorio è naturalista, ma i fatti non sono più spiegabili per cause ed effetti; alle garanzie razionali subentra Io sgomento esistenziale. C'è corrispondenza soprattutto con Kafka (anche in lui c'è la condanna a vivere coli gli occhi chiusi), questo mistico della cabala, che sa che Dio, sentito come padre, ha infuso nell'uomo il bisogno di vedere, ma non lo strumento per farlo. La vita è allora un'attesa all'infinito. Lo stesso capita a Pietro, inetto, impotente, psicologicamente castrato (e, in un altro libro di Tozzi, Tre Croci, lo stesso accadrà ai tre fratelli protagonisti). Questo di Tozzi è un emisfero notturno, l'emisfero dell'inconscio e della fatalità, diametralmente opposto a quello del verismo e del naturalismo francese.

Pirandello ( 1867-1936) nasce a Girgenti, madre di famiglia antiborbonica, padre garibaldino. Il padre, vittima d'una frode, cade in dissesto finanziario, che vedremo trapelare anche nell'arte di Pirandello. Luigi studia lettere e legge a Palermo, Roma, Bonn; conosce quindi la grande cultura tedesca, e conosce la lingua tedesca, decisiva per capire che cosa sta succedendo in Europa in questo periodo.

1901: L’Esclusa; 1904: Il fu Mattia Pascal. Intanto insegna tedesco e italiano, è oberato da tiri superlavoro. Nel '16 con Pensaci, Giacomino c'è Il successo teatrale. Intanto nel '15 era morta la madre e si era aggravata la malattia psichica della moglie. Nel '21 I sei personaggi in cerca d'autore e nel '26 il grande Uno, nessuno e centornila, nel '29 Lazzaro, nel '34 il Nobel, e infine la raccolta di novelle Una giornata pubblicato nel '37.

Ma arriviamo a quello che di Pirandello ha detto Giacomo Debenedetti nel suo fondamentale libro il romanzo del 900. Introducendo Pirandello, il critico fa due grandi premesse: per capire Pirandello e il romanzo nuovo, afferma, occorre capire la svolta nella scienza dei tempo e la svolta nella filosofia.

I. Svolta nella scienza, nella fisica. Qual'è la differenza tra fisica moderna e fisìca classica, galileiana. Questa era meccanicistica: cercava cause uniche e misurabile per ogni effetto analizzabile, prodotto da forze di tipo antropomorfico come lo spingere, ii lanciare, il tirare. Oggi la nuova fisica vede invece gli effetti come prodotti in cui si manifesta un'energia, la materia, e rinuncia all'idea di <~ legge " a cui sostituisce quella di " onda di probabilità ", (i corpuscoli che lo scienziato analizza s'incontrano, ma potevano anche non incontrarsi, mentre la vecchia fisica mostrava ogni volta la legge, la causa che spiega l'effetto). Non c'è dunque più una legge precisa. Dalla legge di "concessione", che afferma che cosa deve accadere poste certe cause, si passa a quella di "proibizione " che dice invece che cosa non può accadere.

Facendo una proporzione, potremo dire che la fisica galileiana sta al romanzo naturalista come la nuova fisica einsteiniana sta al romanzo nuovo (notare la coincidenza di date: poi nel 1905 Einstein pubblica la relatività ristretta, e nel '16 la teoria della relatività generale). Il romanzo nuovo, in rapporto alla fisica nuova, dà atto di alcuni comportamenti possibili mentre potevano nascerne altri, tutti diversi ma altrettanto " probabili ".

2. Svolta nella filosofia. Sartre definisce la vecchia filosofia come " fallimentare ": rispondeva alla domanda " chi sono io " dando da mangiare contenuti di conoscenza. A questa filosofia alimentare subentra la " fenomenologia " di Husserl, che parla della necessità di una coscienza di esistere come coscienza d'" altro da sé ", come un " esplodere verso ", come un " correre di là da sé, verso ciò che non è sé ". lo saprò chi sono andando al di là di me, non semplicemente mangiando libri, accumulando nozioni, ma per un'altra via, quella che cori un termine tecnico si chiama " intenzionalità ". C'è un ignoto nelle cose,cosi come negli uomini; l'uomo è un enigma, non sa perché c'è. Allora i personaggi, per lasciarsi vedere, devono " esplodere " verso Il loro narratore (vedi " I sei personaggi ... " di Pirandello); compito del narratore è lasciarsi ferire da quei personaggi, lasciarsi invadere, e trasferirli sulla pagina, cercare il segreto e il mistero dell'uomo sotto le maschere del visibile, e così arriviamo a Pirandello.

In uno dei suoi testi più famosi, la Prefazione ai Sei personaggi, definisce la sua arte come " fondata su una servetta ", la fantasia, che è al servizio del pensiero, della sua filosofia. Dice: " Ora bisogna sapere che a me non è mai bastato rappresentare una figura d'uomo o di donna per quanto speciale e caratteristica, per il solo gusto di rappresentarla (diremmo noi "come faceva il romanziere naturalista"); non mi è mai bastato narrare una particolare vicenda, gaia o triste, per il solo gusto di narrarla, descrivere un paesaggio per il solo gusto di descriverlo; ci sono certi scrittori - e non pochi - che hanno questo gusto. Ma ve ne sono altri che, oltre che questo gusto, sentono un più profondo bisogno spirituale, per cui non ammettono figure, vicende, paesaggi che non s'imbevano, per così dire, d'un particolare senso della vita, e non acquistino con esso un valore universale. Sono scrittori di natura più propriamente filosofica: io ho la disgrazia d'appartenere a questi ultimi ".

Questa è l'epigrafe del naturalismo, del romanzo naturalista, del romanzo tutto preso dal gusto di descrivere paesaggi e personaggi. Il romanzo filosofico ~ e la filosofia (Pirandello lo sa bene) significa " amore per la saggezza, la sapienza " - è un romanzo che vuoi essere al servizio di quelle grandi domande che l'uomo si ritrova dentro. Con una narrativa dalle parvenze naturalistiche (molto diversa da quella di Joyce, che per esempio con il suo monologo interiore potrebbe farci pensare ai futuristi, mentre nella letteratura italiana non esiste

monologo interiore), Pirandello supera il naturalismo; coli una filosofia pessimista, tardo-positivista, egli supera il positìvismo ed afferma uno spiritualismo (vedi il Lazzaro , uno dei suoi ultimi capolavori ).

Vorrei adesso ripercorrere Il fu Mattia Pascal (1904). Possiamo dividerlo in tre parti. Una cospicua fortuna paterna fa di Mattia Pascal un uomo benestante (il padre aveva vinto al gioco). Anche la storia di Mattia Pascal sarà segnata da una vincita al gioco, quasi in una ironica ereditarietà della fortuna, ironica rispetto alla scientista ereditarietà genetica evoluzionista ( Pirandello dunque ironizza sull'ereditarietà, mostrando questa ereditarietà . . . della fortuna ). Questa eredità però si dissolve, complice l'amministratore Malagna che si arricchisce, mentre Mattia e il fratello Berto fanno, diremmo oggi, i vitelloni.

Malagna vuole un figlio, e non riesce ad averne dalla prima moglie. Si risposa, e anche con )a seconda ubertosa, formosa moglie non riesce ad avere un figlio. Comincia allora a corteggiare Romilda, figlia della vedova Pescatore. Mattia Pascal dapprima mette incinta Romilda (e il Matagna è tutto contento perché crede d'averla messa incinta lui) poi mette incinta Oliva, moglie del Malagna, e a questo punto l'ignaro Malagna è ancora più contento, per la propria presunta virilità, ma il tutto si ritorce contro Mattia Pascal che deve sposare Romilda, entrare in casa della "strega" sua suocera.

Già da questo possiamo definire Mattia Pascal un personaggio " in disponibilità ", un tipo umano che non avendo una vita sua è disponibile per tutte le avventure, pronto a mettersi al servizio di fini altrui. E’ cosi l'emblema dell'uomo del primo novecento: mettendo incinte due donne ci si rivela come l'uomo che gioca con l'amore, che è possibilità d'interezza per la vita, e una delle principali vie del processo di autoidentificazione. Mattia si accorge però che è la vita a definirlo: si ritrova con due arpie in casa, in miseria, con un lavoro che non richiede alcuna capacità, si ritrova dunque entro la mediocrità; sì autodefinisce " inetto " (pag. 75 dell'edizione Oscar Mondadori). A quel punto comincia a leggere filosofia, trovandosi " solo mangiato dalla noia " e queste sono due parole-chiave del romanzo (abbiamo visto come noia - nausea - spleen -tedio attraversino tutta la cultura del '900). Va sulla spiaggia e si accorge della propria immobilità, che fa sgorgare la domanda: " perché ? ".

A quel punto decide di campare alla giornata, adeguarsi alla società: gli nascono due figlie, ma queste due bambine si graffiano nella culla: il male abita nel cuore dell'uomo, se le due bambine si graffiano nella culla; non c'è innocenza neppure in un neonato.

Una delle pagine più belle è quella in cui Mattia ricorda la nascita, la breve vita e la straziante morte delle due gemelle. " Erano mie ": in questo possesso-appartenenza Mattia pare ritrovarsi, comprendere la propria identità, potendo dire " mio " d'un altra persona (le pagg. 86-87 sono intessute degli

aggettivi possessivi e dei pronomi personali " Mia, mie, mi, me "). Figlia e madre muoiono però lo stesso giorno, e a quel punto accade la svolta dei romanzo: lui che aveva sempre barato con tutto, soprattutto con l'amore, non aveva però potuto barare con la carne della sua carne, ma anche questa gli era venuta meno. Mattia non può più vivere perché non ha legami né coi passato né coi futuro (né la madre, né la figlia). La sua è una fuga folle nella notte finché giunge a Montecarlo ove gioca e vince " una somma veramente enorme ". Ma subito dopo anche a Montecarlo si parla di noia, di schifo di vivere senza speranza.

La sua storia ha però una svolta. Dopo aver vinto sta tornando a casa coli le sue 82.000 lire e covando pensieri di rivalsa tipo: adesso v, faccio vedere io, strega d'una suocera, ciabattona d'una moglie! Ma sulla via del ritorno in treno apprende la notizia giornalistica del proprio " suicidio ": il cadavere di uno sconosciuto è stato evidentemente scambiato per il suo! Si sente dunque libero, d'una libertà come sganciamento dai vincoli ambientali, storici, spazio-temporali. Questa è la grande trovata di Pirandello.

Mattia finora non si conosceva, quindi Pirandello non poteva descriverne un'azione che ce lo presentasse dicendoci chi è e cosa vuole. Ma ora è ricco, anagraficamente libero e deciso a ricominciare la vita come uomo autofabbricato: " Stava a me: potevo e dovevo esser l'artefice del mio nuovo destino " (p. 114). Perfetto esempio dunque di potenziale superuomo. Ma la sua storia non giunge a buon fine: Mattia Pascal cerca la felicità ma si accorge di non poterla raggiungere.

Pirandello, per il quale la storia è una prigione, ha liberato Mattia dalla storia e gli potrebbe chiedere: " adesso mostrami cos'è l'uomo nuovo, di che cosa ha sete quest'uomo contemporaneo cosi triste? "; ma non lo fa, perché anche lui non sa che cosa sia l'uomo nuovo, o meglio lo sa solo negativamente; ha una coscienza del limite strutturale presente nel cuore umano, ma non sa poi indicare la strada verso l'infinito; contesta la strada superomistica dannunziana e non sa però trovarne altre. Ne esce così un nuovo Mattia sgradevole e brutto, ancor più del primo, diverso nell'apparenza ma identico nella sostanza. Mattia potrebbe essere fedele alla sua " Ulteriorità ", al suo " oltre " (meta ideale cui è protesa tutta l'arte pirandelliana), ma non lo cerca, sostanzialmente sposta il problema.

In questo è l'emblema dell'uomo moderno. Mattia, invece d'andar dentro sé, tenta di risolversi con un'operazione esteriore di "chirurgia plastica": cambiandosi nome e connotati. Ma la libertà non dimora lungo questa via; la libertà, come dice il Debenedetti, è possibile solo in un incontro, in un lavoro, solo in un confronto con il male e la sofferenza, non fuggendo la realtà ma facendoci i conti. Così Mattia è sempre più un " forestiero della vita ", è sempre in difesa, costringe per due anni la sua vita ad una serie di cautele sempre più inutili, soffoca i suoi sentimenti; è il personaggio negativo, è colui che dice più "no" possibile. Ma è "sospeso in un vuoto strano", la sua ricerca della felicità porta all'infelicità.

Pírandello 25 anni dopo (nel '29) scrive il Lazzaro, opera teatrale che con " Il fu Mattia Pasca] " ha in comune il tema morte-risurrezione: Mattía è l'uomo dell'autori- surrezione, il Lazzaro invece è la storia di una risurrezione vera; il protagonista, Diego Spina, muore e risorge con una iniezione di adrenalina. Tutti sanno che Diego di là non ha visto niente, e si chiedono: "ma allora che cosa c'è di là?". Lui risponde che di là non ha visto niente perché non c'è niente (emblema del materialismo epicureo, ateo, gaudente). Il Monsignore dice che se anche di là avesse visto qualcosa ora non può ricordarlo. Lucio, figlio di Diego Spina, costretto al seminario dal padre e poi uscito, risponde che c'è lo spirito immortale di Dio di cui l'uomo è un atomo transitorio.

Tutta la critica in Lucio vede Pirandello stesso: in lui si rispecchia lo spiritualismo dell'autore, vagamente cristiano, fuso in un certo modo con lo spiritualismo crociano. Di fronte al miracolo della risurrezione del padre, Lucio ritorna alla fede e rimette l'abito da sacerdote; suo padre Diego invece si convince che di là non c'è niente e spara all'amante della propria moglie. E’ qui che cominciano i miracoli, qui comincia l'unica strada positiva di tutta la produzione di Pirandello. Se è vero che si ríspecchia in Luicio, dalle parole di questo personaggio possiamo capire la visione del mondo dell'autore. Il libro si chiude cori la parola "miracolo", su cui si apre per Pirandello una nuova prospettiva.

Nel "Lazzaro" Pirandello affronta il problema che Mattia aveva frodato: la morte in Mattia era stata un suicidio prestato, una reincarnazione anagrafica (Adriano Meis), e un'ultima reincarnazione, dopo un secondo finto suicidio, nei suoi panni originari di Mattia. Questo finto suicidio e resurrezione finta, nel " Lazzaro " sono invece morte vera e resurrezione vera. La strada che Pirandello si prefigge è dunque quella della verità che sconfigge la menzogna, la strada dei miracolo e della conversione,

La conclusione de " Il fu Mattia Pascal " è il ritorno di Mattia al suo paese: li ritrova la moglie risposata con Mino, l'amico di gioventù, e madre di una bambina; non vuole disturbare il loro amore; semplicemente va ogni tanto a mettere dei fiori sulla proprìa tomba, e il libro, che si era aperto con la frase " io so una sola cosa: che mi chiamo Mattia Pascal " si chiude con una frase simile: " io sono il fu Mattia Pascal".

Forse in questo " Pascal " è nascosto il dramma di Pirandello: dramma di una domanda prepotente in Blaise Pascal che trecento anni prima arriva alla fede; dramma di una domanda che ora non sa più approdare ad una certezza. Per un attimo Mattia, alias Adriano Meis, pare trovarla nel suo incontro con Adriana, a Roma, ma non può sposarla (per l'anagrafe egli è morto!): ritorna al paese, ma la moglie non è più sua, come non lo erano più state la madre, la figlia, se stesso.

E’ solo e si sente " sperduto ".

Nella novella che dà titolo all'ultimo libro, Una giornata, protagonista è un uomo che entra in un treno e gli rimane impresso solo un lanternino cieco, poi viaggia e non ricorda più nulla. La vita allora all'anziano Pirandello si rivela come un viaggio in cui non sa più da dove viene e verso dove va: può contentarsi di analizzare il suo scomparti merito, di piazzarsi dentro il treno nella maniera più comoda possibile. Può invece, ed è cosi in Pirandello, vivere drammaticamente questa percezione della vita, mantenendo aperta la domanda di conoscenza, anche se " tutti gli altri, simili a me, ci si muovono in mezzo senza punto badare] ". Allora, ed è il messaggio finale dei libro e dell'intera opera dei Nostro, all'anziano scrittore non resta che posare uno sguardo carico di " tanta, tanta compassione " sui suoi figli e sull'umanità.